Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma del direttore Andrea Monda

Il Messaggio di Papa Francesco per la giornata mondiale delle comunicazioni sociali è incentrato sul tema della narrazione, sulla necessità, propria dell’uomo «essere narrante», di raccontare storie, perché è il racconto di storie buone che permette di respirare più liberamente in un mondo soffocato dalle chiacchiere e dalle fake news. Abbiamo girato la provocazione insita in questo messaggio a una serie di artisti coinvolti con la loro opera creativa a rendere più bello e umano il mondo e in molti hanno reagito riflettendo “in dialogo” con il testo del Papa. Iniziamo questa serie con le parole che ci ha consegnato Renzo Piano.

L’ha colpita questo messaggio del Papa tutto incentrato sul racconto?

Sì, perché narrare è una cosa che credo faccia parte della nostra umanità così come cercare, esplorare, cercar di sapere. Non c’è niente da fare: siamo nati con questa speranza del sapere ed è questo che fa di noi tutti degli scienziati potenziali. C’è chi prende la strada dell’arte, chi della filosofia, chi della scienza ma tutti noi cerchiamo di capire il mistero. Ne conosco tanti di scienziati, come ad esempio gli astrofisici che lavorano al Cern di Ginevra che di fatto non fanno altro che indagare il mistero dell’universo nelle dimensioni dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. Ma le strade sono appunto tante e diverse, da qui nasce il racconto, che è legato al linguaggio che fa sì che un poeta quello che ha da dire lo dice con la poesia, che lo scrittore lo dice scrivendo, e l’architetto lo dice costruendo. Costruire ripari per gli uomini, questo fanno gli architetti, rispondendo all’istinto propriamente umano del costruire. Cercare, conoscere, costruire, a questi istinti si collega l’istinto della narrazione il quale è un po’ trasversale a tutti gli altri che hanno bisogno di un racconto. La narrazione è lo strumento con cui tutti gli altri possono trovare riscontro. Senza narrazione non ci sarebbe scienza, non ci sarebbe scambio. È un tema affascinante.

Oscar Wilde diceva che lo scultore pensa in marmo. Lei lo fa “costruendo ripari”. Come è successo che a un certo punto della vita ha seguito l’istinto della costruzione?

Io sono un figlio della guerra, sono «figlio di un temporale» come diceva il mio amico De André. Quando ero piccolo, dovevo avere sei o sette anni, seguivo mio padre nei cantieri. Era un piccolo imprenditore con una piccola ditta con dieci, quindici operai e io ci andavo volentieri, lui mi ci portava spesso e lì osservavo la vita del cantiere che a quell’età mi appariva come una cosa magica, perché vedi cose inanimate, mucchi di mattoni, mucchi di sabbia e poi avviene qualcosa di miracoloso e tutto si trasforma. Per gli occhi di un bambino di sette anni questo è miracoloso direi in maniera ingenua, ma poi crescendo ti accorgi che costruire è sempre magia pura. Cresci, vai a scuola, studi per diventare architetto e ben presto capisci che non si tratta solo di costruire, si aggiunge sempre un po’ di magia. Costruire case è già molto bello, ma ancora più bello è costruire luoghi dove la gente si incontra, edifici per la comunità ed è quello che un po’ è successo a me che ho praticamente sempre costruito biblioteche, musei, sale per concerti o università. Questo aggiunge una dimensione sociale e quindi etica al lavoro di architetto: costruisci qualcosa per cambiare il mondo, per far sì che la gente si incontri e incontrandosi possa parlare, conoscersi, conoscere… siamo sempre lì. Per questo dico che c’è un di più, non solo la dimensione etica ma anche quella poetica. Ci deve essere il kalòs, quella cosa gratuita e inutile che è la bellezza senza la quale però nulla ha senso. Una biblioteca serve a conservare i libri, ma non può essere brutta, non può essere priva di questa magia della luce, della bellezza. Come architetto sei anche tu un narratore, costruisci luoghi che permettono la narrazione; non sei un musicista ma sei un liutaio, costruisci un luogo dove la musica può muoversi, svilupparsi. I luoghi che un architetto costruisce sono luoghi di fortissima dimensione umanista: una biblioteca, il luogo dove passa il sapere, la conoscenza, oppure una scuola o un ospedale, non sono edifici da costruire solo con la tecnica, sono luoghi umani, c’è qualcosa in più.

Ritorniamo alle semplici abitazioni, alle case. Ogni abitazione di fatto rivela una storia, quasi come una “pelle” di chi l’abita. Noi umani abbiamo la pelle, poi abbiamo gli abiti che già rivelano qualcosa di noi, di quello che pensiamo e poi c’è la terza pelle che è la casa in cui abitiamo. Anche nelle case private vi è sempre una storia, un’identità, un racconto…

Sì, per questo mi piace il messaggio del Papa. Perché l’architettura risponde senza dubbio ai bisogni pratici di una persona, di una famiglia, di una comunità, ma non ha solo una funzione pratica, è anche sempre legata alle aspirazioni, ai desideri e ai sogni delle persone, dei popoli. Pensiamo alla dimensione popolare: c’è sempre bisogno di spazi dove ci si senta uniti, dove si possano condividere dei valori. Per le singole persone, ebbene anche la più modesta casetta, una capanna assolve la funzione di coprire, riparare, ma porta con sé i tratti di un racconto, di una narrazione per l’appunto. Cioè racconta la storia di quella famiglia, di quella persona, delle sue ambizioni in qualche maniera. Anche nella casa più modesta in qualche maniera c’è sempre dentro questo. Ed è lì che l’abitazione diventa interessante. L’architettura, quella pienamente umana, è quella che si mette a servizio di una narrazione.

Il Papa parla di una narrazione umana che ci parli di noi e del bello che ci abita…

Esattamente, è ciò di cui sto parlando. Un architetto è un costruttore ovviamente, ma è al tempo stesso una persona che umanisticamente appartiene al mondo, che ha una sua etica, che svolge un’attività per cui ha bisogno di parlare con la gente, conoscerla, capirla. Alla fine anche lui porta con sé un racconto e un messaggio, così come un poeta, uno scrittore… e tutti questi messaggi, perché possano essere significativi, devono essere poetici, poetici nel senso profondo della parola, cioè devono avere i caratteri della bellezza. Naturalmente per bellezza qui intendiamo quella giusta, quella di cui parla il Papa, collegata anche al senso del giusto e del buono, pensiamo al Kalòs kai agathòs dei greci e notiamo come in tutto il bacino mediterraneo la parola bello è associata al buono: nel sud Italia “bello” lo si dice anche di un piatto di pastasciutta. Anche in Africa è così, non esiste una parola che indichi una cosa bella e basta, una cosa bella è anche buona. In questa logica, la bellezza è necessaria. Se non c’è questa bellezza in questo suo scrivere il suo giornale, in quello che io cerco di fare nel mio spazio, in quello che dice il poeta, se non c’è questa bellezza il messaggio della narrazione non passa. C’è quella bella scena de Il Postino con Massimo Troisi, quando  Neruda-Noiret recita l’Ode al Mare e il postino gli dice: «Cos’è questa?». E Neruda risponde: «È una metafora  poetica». Allora  il postino gli chiede: «Ma me la spieghi?». E lui gli dice: «Ma io sono un poeta e quello che devo dire lo dico con la poesia, non ho altro modo di dirlo». 

E qui rispunta il tema del linguaggio.

Io sono architetto, non posso far passare il  mio messaggio attraverso le parole mettendomi a scrivere (cosa che non mi sogno nemmeno di fare): non è nel mio linguaggio, fallirei. Quello che ho da dire l’ho costruito facendo Beaubourg a Parigi, facendo la sede di «The New York Times», costruendo un ospedale in Grecia e così via… Esiste una connessione tra la mia narrazione e la dote che il Padre Eterno mi ha dato e di cui tutti, in modo diverso, siamo stati dotati e di cui dovremmo essere grati. Forse dovremmo provare ad accontentarci di quello che abbiamo ricevuto e cercare di usarlo bene. Stando attenti a non confonderci l’uno con l’altro, io lo dico sempre a tutti quanti: «Tu sai scrivere bene, fallo attraverso la scrittura; tu sai cercare, fallo attraverso la ricerca».

C’è però anche un lato negativo della narrazione, ne parla anche il Papa nel suo messaggio quando riflette sui rischi della comunicazione…

Senza dubbio, esiste un aspetto negativo, penso all’informazione, alle news. Sì, c’è anche un uso malato delle news, un uso strumentale, e questa è la tragedia delle fake news. L’uso che si fa delle parole, della narrazione per sedurre o per convincere, addirittura spingendosi fino a creare una narrazione falsa.

Ci può essere un’architettura malata?

Ci potrebbe essere. È il caso di un’architettura aggressiva, che non accoglie, che non dà spazio, che s’impone in qualche modo, è l’architettura che vuole persuadere, manipolare, un’architettura che diventa retorica. Ricordo quello che mi diceva Norberto Bobbio sul fatto che c’è moltissima gente che passa la propria esistenza a persuadere gli altri delle proprie idee, invece che dedicarla ad avere idee giuste. E questi sono i narratori malati, non  cattivi (poi ci sono anche quelli cattivi che raccontano una narrazione volutamente falsa per estorcere o per sedurre) perché questa forma di malattia di cui parla Bobbio è innocente, anche se molto diffusa, una malattia imparentata con il narcisismo. 

Sempre il Papa, parlando di recente in tema di educazione, ha detto che il segno di un buon sistema educativo è se è capace di creare poeti, che ne pensi?

Molto interessante. Detto meglio, è quello che stavamo dicendo prima. Se tu non sei capace, come cineasta, come scrittore, come scienziato, se non sei capace di tradurre tutto  in poesia, e quindi toccare emotivamente chi ti ascolta, il messaggio non riesce a passare, ti scivola via, è interessante, ma non colpisce il cuore. Non penetra profondamente, non ti fa nascere quella vibrazione interna. La dimensione della poesia è fondamentale. Questo mi fa venire in mente un’altra cosa: tutti i grandi scienziati che conosco sono tutte persone che si spingono fino al massimo e poi si fermano sempre di fronte a un mistero.  Ed essendo persone, uomini e donne intelligenti, restano in sospensione. C’è sempre un momento in cui ciò accade. In questo senso siamo tutti uguali. Poi c’è chi lo nega, chi non lo nega, c’è chi lo accetta all’ultimo istante. Ma noi esseri umani siamo tutti quanti accumunati da questa consapevolezza di un mistero che ci sorvola, ci supera. Anche questo ha a che fare con la poesia.