Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Gabriele Nicolò

È un alfabeto di lusso quello coniato da Federico Fellini: a ciascuna lettera, infatti, corrisponde o un grande attore o un celebre film, nonché un simbolo o un’icona di squisita fattura. Dalla A di Amarcord alla V di Vitelloni, passando per la E di Ekberg e per la G di Giulietta. E non può non avere il giusto rilievo la P di Paparazzo. Sciorinando tali voci Oscar Iarussi, nel libro Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico (Bologna, il Mulino, 2020, pagine 237, euro 16) guida il lettore lungo l’esaltante itinerario della poetica felliniana. Un itinerario scandito dunque dalle lettere di questo peculiare alfabeto, le quali finiscono per comporre uno scenario caratterizzato da una doppia dimensione: da un lato, le luci della ribalta, quindi i successi e gli onori; dall’altro, la solitudine dell’uomo e dell’artista, animato, ma non di meno angustiato, da un’ansia, nobilitante ma pure corrosiva, di ricerca. 

Il mondo che Fellini ha descritto è complesso, ricco di sfumature, di messaggi sottintesi, di citazioni dotte. Eppure, nel raccontarsi, il regista non poteva essere più spartano. Non a caso, la prima pagina del libro si apre con una frase che in poche parole dice tutto: «Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato, e sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro». A questa affermazione segue una dichiarazione di Fellini che a buon titolo si può assumere come il suo marchio di fabbrica: «Il visionario è l’unico vero realista». Si tratta, scrive Iarussi, di «un magnifico paradosso», che al regista riconosce subito un alto merito: quello di essere stato fra i pochi a saper raccontare un’Italia in radicale trasformazione. La sua non fu certo un’opera semplice poiché fu «spesso incompresa o avversata, puntualmente equivocata sotto il segno della presunta nostalgia goliardica, laddove invece illumina il presente o addirittura capta il futuro». 

Vincitore di cinque premi Oscar, Fellini — sottolinea Iarussi, saggista, critico cinematografico e letterario — è stato «un raffinato antropologo del Novecento nel suo farsi e disfarsi». La sua eccellenza si può misurare anche sulla capacità di consacrare la supremazia dell’abnorme, del beffardo, del bizzarro. Tale primato del grottesco scandisce il progressivo declino di una società invecchiata e stanca, «forse paga — evidenzia Iarussi — del ricordo o della pallida imitazione, spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria nelle stagioni del boom degli anni Sessanta, ovvero della Dolce vita». Nel libro si fa presente poi che senza «le struggenti invettive» di Pasolini contro la modernità, il Riminese si configura come un lungimirante testimone nel campo delle metamorfosi sociali. Intervistato dall’amico Georges Simenon, Fellini ebbe a confessare: «In fin dei conti lei e io abbiamo sempre raccontato delle sconfitte. Ma voglio, devo riuscire a dirle che credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità». 

Nella cultura di massa e nell’immaginario collettivo il nome di Fellini è legato anzitutto al film La dolce vita. Riscosse subito un grandissimo successo: si stima che l’anno in cui uscì, 1960, furono più di 13.600.000 le persone che accorsero nelle sale. Tra gli spettatori non mancarono i minori di 16 anni nonostante il divieto della commissione ministeriale (soltanto nel 1975 tale divieto sarà abbassato a 14 anni). La critica non fu univoca: sulla pellicola non fioccarono solo elogi, ma anche strali, anzitutto da parte ecclesiastica, ricorda Iarussi. «L’Osservatore Romano» scrisse un commento dal titolo La sconcia vita (per poi pubblicare, nel cinquantenario del film, 2010, un saggio elogiativo). 

Ne La dolce vita il regista, in bilico fra le dimensioni oggettiva e onirica, tra realtà e vena surrealista, descrive in filigrana un’Italia che si vuole divertire: ma è un divertimento che non riesce a scrollarsi di dosso un sentore di amarezza costante, un retrogusto di disillusione carico di malinconia. Nel «bagno fatale» della Ekberg nella fontana di Trevi — afferma Iarussi — l’Italia diventa «il Paese dei Balocchi, in cui si possono sperimentare amori passeggeri e grandi passioni, avventure notturne e un domani a occhi aperti». Vittorio De Sica definì il film «una cafonata, il sogno di un provinciale». Dal canto suo, Luchino Visconti, dichiarò: «Ma quelli sono i nobili visti dal mio cameriere». E di nobili il regista de Il Gattopardo, chiosa l’autore, si intendeva, essendo il rampollo della casa patrizia milanese Visconti di Modrone. Alla luce di questi commenti, Iarussi sottolinea che sia De Sica che Visconti hanno torto, perché come molti altri, interpretano il film come un’apologia del vizio o del tempo perso «tra le braccia di una Roma seducente e paralizzante». 

In realtà la Dolce vita riserva una panoramica compassionevole sulla «vita agra» — come la definirà lo scrittore Luciano Bianciardi (definizione che dà il titolo al suo romanzo più noto) — di un paese in equilibrio fra passato futuro. del resto anche Roma, nel film, non è soltanto via Veneto o la fontana di Trevi: Roma è anche borgate, rovine, caos, ovvero quegli scenari che furono tanto cari a Pasolini.

Nel gioco di finzione e realtà dagli echi pirandelliani, Fellini si trovava completamente a suo agio. Ma al contempo, egli pagava lo scotto, in termini di identità, di questo intrecciarsi — mai veramente fluido e stabilito una volta per tutte — di cosa fattuale e citazione astratta. Molto significativo è quanto il regista stesso dichiarò nel febbraio 1993, ovvero pochi mesi prima di morire. Alla vigilia della cerimonia, a Los Angeles, in cui avrebbe ritirato il premio Oscar alla carriera, Fellini confidò all’amico giornalista Vincenzo Mollica: «Se dovessi scrivere delle battute per un attore chiamato a interpretare la parte di un regista premiato con l’Oscar, probabilmente me la caverei abbastanza bene. Ma il fatto che sono proprio io coinvolto in questa vicenda mi rende balbettante e insicuro». Infatti, in questi casi — notava il regista — bisogna essere spiritosi, intelligenti, elegantemente distaccati. E si deve essere, sottolineava non senza ironia, «anche felliniano». Al riguardo, sentenziò: «Quest’ultimo è il ruolo più difficile, perché nonostante sia lusingato di essere diventato anche un aggettivo, non so cosa voglia dire». In questa frase, c’è tutto Fellini (e la cifra felliniana).