ABBIAMO UN GRANDE BISOGNO DI REALISMO POLITICO. IL DIBATTITO DI C3DEM SULLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA.

 

Da più parti si osserva come la crisi della democrazia solleciti una riflessione capace di indagare il futuro possibile. C3dem, proponendo lodevolmente un dibattito aperto su queste prospettive, tocca anche le corde profonde delle trasformazioni epocali in corso dopera, che poi intersecano e ricadono a pieno titolo sulla democrazia. I destinatari sono le diverse associazioni e i movimenti, che si ispirano al cattolicesimo democratico e popolare italiano, alla Costituzione, al Concilio e allinsegnamento sociale della Chiesa.

Di seguito pubblico la seconda parte dell’intervento di Labate, assiduo interlocutore del nostro Blog, con il link a fondo pagina per leggere il testo integrale.

 

Nino Labate

 

[…]

 

Leggere con occhiali nuovi le sfide del nostro tempo

 

Le sfide del futuro sono sotto i nostri occhi da tempo, anche se non ci facciamo molto caso. Ma sono novità assolute nella storia dell’uomo. Proprio per questo basta un po’ di buon senso per capire che le risposte da dare a queste sfide non possono essere a misura di partito, o della destra o sinistra politiche. E le sfide si sommano indicando vere e proprie rivoluzioni cognitive nel nostro modo di leggere il mondo, che poi conducono a vere e proprie rivoluzioni sociali, economiche, culturali e quindi politiche.

 

L’avvertenza sul lavoro da fare è una sola: che questi urgenti ripensamenti devono far capo alla testa e non alla pancia. Devono superare le ideologie otto e novecentesche, devono il più possibile accorciare le distanze tra le vecchie categorie di Sinistra e Destra, come dicevo. Ma evitando nello stesso tempo di cadere nelle trappole – pericolose – del pensiero unico e del partito unico, dove si livella ogni dibattito, e si fa morire il sacrosanto diritto alla libertà di dissentire e associarsi. È stata la mistica Simone Weil ad avvertirci molti anni fa di questo pericolo quando ha ragionato sulla morte di quel partito politico che evita la dialettica, e che si riduce ad una sola dimensione.

 

Per questo, pur di fronte a problemi epocali che chiedono risposte coraggiose non dissimili, bisogna continuare ad aver fiducia nel pluralismo. Legittimando soprattutto i corpi intermedi, specie quelli che partono dal basso. Riconfermando senza discussioni il ruolo insostituibile del Parlamento e del confronto pubblico, a prescindere dagli invocati presidenzialismi. Rispettando i municipi con i loro problemi reali locali quando non si trasformano in localismi. Delegando poteri e sovranità a quella Europa unita indicataci dai padri fondatori. Applicando quel benedetto e frainteso principio di sussidiarietà. Ma evitando di evocare fascismi e voglie autoritarie o comunismi proletari, quando nelle emergenze si rendono opportune decisioni centralizzate nelle mani del Governo come nel caso del coronavirus. O quando non si vuole pregiudizialmente giustificare l’esistenza di una destra sociale non rivolta solo ai primi, ai migliori e ai meritevoli per questioni di famiglia, ma anche agli ultimi, e quando si constata che le logiche del libero mercato e della proprietà privata sono ormai nel DNA del socialismo democratico. Dunque, un pluralismo vero. Non quello finto venduto come vero. Un pluralismo di sostanza, insomma, e non quello delle pure apparenze per accontentare i tanti partiti personali oggi a misura di solitari leader. O quello favorito e incentivato dalle leggi proporzionali che frammentano l’elettorato in una miriade di partiti e partitini simili, diversi solo nel leader ma che conducono ad un pluralismo politico formale, che, nella prospettiva dei cambiamenti, spesso si riduce a ripetute fotocopie di partiti, programmi, risposte e soluzioni.

 

Ma c’è dell’altro. C’è l’importanza di avere uno Stato presente che, pandemia o meno, deve continuare a fare la sua irrinunciabile parte reagendo a quel neoliberismo austriaco modello laissez faire del “meno Stato e più privato”. Reagendo a quegli studiosi ed editorialisti innamorati del libero mercato come unica e sola possibilità di sopravvivenza civile, che hanno sempre snobbato Keynes. Un momento storico, il nostro, che deve essere tolto dalle mani dei tanti che confondono il bene comune col bene particolare, il bene di tutti col bene di una sola parte, il bene nazionale col bene di un partito. E tutto questo mentre l’economia si incammina verso lidi sconosciuti e le società necessitano di urgenti analisi e altrettanto urgenti risposte.

 

Sotto questo aspetto, ritengo che lo smussamento delle differenze storiche tra sinistra, centro e destra, e che l’avvicinamento delle risposte politiche e partitiche debba essere compito della ragione più che della passione. Più dell’intelligenza dell’uomo che di quella artificiale o dei media, dei social e dei selfie. Un compito nuovo e arduo nello stesso tempo, che ha poco a che fare con la cattura del consenso politico-partitico, e che deve essere capace di misurarsi con un capitalismo che ormai è concentrato nelle mani della sola finanza, lontano dai controlli democratici, e che crea diseguaglianze e povertà di portata mondiale, con un mercato azionario pilotato solo dall’1% di super ricchi che detta le leggi alla democrazia esercitando un potere extrapolitico che i liberisti fanno finta di non vedere.

 

Non concedere nulla ai populisti del dagli alla casta!”

 

Ci sono risposte diverse da dare a questi problemi? Una destra sociale, una volta che indirizzi il suo sguardo verso la società anziché verso le sue idee, riesce (e vuole) veramente a essere diversa da una sinistra sociale? Un liberalismo democratico riesce veramente (e vuole) essere diverso da una socialdemocrazia veramente liberale?

 

Esiste, dunque, qualche possibilità di ridurre le differenze ideologiche orientate al consenso? Oppure, per le sfide che ci attendono, dobbiamo continuare a collocarci a destra, al centro e a sinistra proseguendo allegramente su categorie storiche del passato che non dicono più niente? Siamo o non siamo convinti che occorre ritarare le vecchie distinzioni ragionando su quelle nuove che sono sopraggiunte? E poi: esiste la possibilità di conciliare il sacrosanto diritto costituzionale di concorrere alle elezioni politiche, evitando però la proliferazione inutile dei partiti, quando ormai se ne contano 54 registrati, 18 in Parlamento e 9 fuori dal Parlamento (che arrivano a 26 se si tiene conto dei gruppi parlamentari, delle liste per l’Europa e di quelle nazionali locali)?

 

So di urtare la suscettibilità di quanti, nel nostro ambiente culturale, vogliono che nel Parlamento trovino posto anche i partiti più piccoli, perché tutti siano rappresentati, ma è evidente che questa mia riflessione porta al bipolarismo se non al bipartitismo, e devo ammettere che ciò non mi scandalizza per niente. Le varie Terze vie sono state fallimentari. Questo mio auspicio, però, non concede nulla ai populismi che sbeffeggiano le c.d. caste e la classe politica, che io ritengo invece indispensabili ieri come oggi. Non concede nulla, cioè, a quelli del “né di destra né di sinistra!”. Perché rimane sul tappeto e in bella evidenza il tema dell’’eguaglianza e della diseguaglianza, tanto caro a Norberto Bobbio, che ci deve fare luce nel percorso delle soluzioni insieme ai diritti dell’uomo e alla giustizia, e possibilmente con l’utopia di Bergoglio sul salario universale.

 

Il centrismo inutile

 

Quando era già partito un processo spontaneo di ridefinizione, è stato Marco Revelli a interrogarsi, circa 30 anni fa, sull’”identità smarrita” di Sinistra e Destra. Facendo seguire questa sua riflessione da un lavoro provocatorio e ancora più chiaro sin dal suo titolo: “Finale di partito”. In esso – scontando la scomparsa del vecchio partito di massa, trasformato in comitato elettorale nelle mani di un leader in diretto rapporto con gli elettori (e dando così ragione a Bernard Manin e alla sua “Democrazia del pubblico”), e con gli occhi rivolti a quella “Postdemocrazia” denunciata da Colin Crouch e caratterizzata dall’enorme e incontrollabile potere delle lobby economiche e dei mass media – sono proprio le identità di sinistra, destra e centro ad essere messe sotto osservazione.

 

Sono anche gli anni in cui Pietro Scoppola ragiona su quella Repubblica dei partiti che ha frenato l’avvento di una democrazia compiuta, soffermandosi sulle ragioni storiche del centrismo e lanciando velati avvertimenti sulle lotte intestine fra le élite interne ai partiti: premessa alla loro crisi d’identità, ai giorni nostri venuta a piena maturazione.

 

Subito dopo arriva il lavoro di Norberto Bobbio su Sinistra e Destra, indicate, come ho detto, come l’alternativa tra i fautori dell’uguaglianza e i sostenitori della diseguaglianza. Una distinzione lungimirante che ha avviato un dibattito ancora in corso, ripreso recentemente anche da La Civiltà Cattolica con un articolo di Francesco Occhetta del maggio 2018 (“Destra, Sinistra e le nuove appartenenze della politica”) il quale si interrogava anche lui su cosa potesse sostituire queste ormai vecchie categorie politiche. Nei riguardi del Centro, la storia politica italiana è stata attraversata dal centrismo storico della vecchia Dc, spesso definito moderato e cattolico. Un centrismo in quegli anni giustificato da una “politica di centro… necessaria per l’Italia post-fascista, portando al superamento dell’antifascismo e alla convinzione che il partito comunista di Togliatti sarebbe, prima o poi, diventato democratico”: così scriveva la filosofa Lorella Cedroni introducendo un bel libriccino di Reset edito nel 1995, “Centrismo vocazione o condanna?”. Quei ceti medi moderati e quella borghesia sono ormai scomparsi dalla scena sociale e culturale, come ci hanno da tempo avvertiti De Rita, Bonomi e Cacciari.

 

Il centrismo e il centro politico sono tornati oggi d’attualità grazie alla legge proporzionale, perché si pensa, a torto, che essa da sola possa creare una domanda sociale e definire una identità cultural-politica. E si nota qualche fuga in avanti in coloro che considerano il popolo cattolico e moderato come la base sociale di tale centrismo. Giustificato e forse necessario negli anni del secondo dopoguerra, a causa della nota situazione internazionale, e se vogliamo anche quella nazionale della ricostruzione, che ha caratterizzato le identità partitiche di quel tempo storico. Quel centrismo non ha però elaborato una qualche originale filosofia politica se vogliamo escludere quel moderatismo necessario nel secondo dopoguerra, e oggi con i moderati presenti nell’intero arco dei partiti costituzionali, senza nessun significato politico.

 

E, dunque, se proprio non possiamo fare a meno delle distinzioni geometriche orizzontali, si abbia almeno il coraggio di dire a chiare lettere che sono altre le cose che quelle categorie devono indicare. Tenendo gli occhi sempre bene aperti su quelle minoranze nostalgiche col saluto fascista e col pugno chiuso.

 

Per leggere il testo integrale

https://www.c3dem.it/abbiamo-un-grande-bisogno-di-realismo-politico/