«Adesso cosa possiamo fare?». Ricordo di Gerardo Bianco, il Popolare che voleva sfidare la sinistra sul terreno del riformismo.

Bianco apparteneva a una generazione di uomini politici che non potevano mai stare fermi. Era un convintissimo europeista. Avrebbe voluto Carlo Azeglio Ciampi nelle liste del Ppi. È sempre stato un vulcano di idee, un fuoco con almeno un tizzone sempre vivo.

Quante volte mi sono sentito rivolgere questa domanda da Gerardo Bianco. Apparteneva, infatti, a una generazione di uomini politici che non potevano mai stare fermi. Se fai politica devi sapere dove vuoi andare, non cercare l’ombra. Me l’ha posta anche l’ultima volta che ci siamo visti, poco più di un mese prima di lasciarci. Avevamo discusso del quadro politico internazionale e di quello nazionale, che lo preoccupavano molto: la guerra in Ucraina, le lentezze dell’Unione europea e poi la nuova situazione politica italiana a seguito delle elezioni del 25 settembre dello scorso anno, dalle conseguenze ancora ignote e difficili da prevedere. Abbiamo esaminato alcune ipotesi di lavoro non nascondendoci difficoltà e praticabilità. Eppure, come se non ci fossimo parlati in modo approfondito, prima di congedarci, in piedi davanti alla porta, mi ha ripetuto la domanda: “ma adesso cosa possiamo fare?”. Per lui non esisteva la possibilità che non si potesse fare niente. Si doveva provare qualcosa e rifiutare l’inerzia.

Ricordo che la stessa domanda la pose nel 1994 a Bruxelles alla prima riunione della delegazione italiana del gruppo parlamentare del Ppe, subito dopo l’elezione degli organi interni. “Cari colleghi, adesso cosa possiamo fare?”. Lavoriamo all’interno del gruppo, seguendo il calendario parlamentare, cosa vuoi che facciamo? “No, cari amici, noi rappresentiamo un paese che ha da poco subito una svolta politica che investe anche la sua tradizionale politica europeista. Dobbiamo fare qualcosa perché ciò non si realizzi”. Si trattava di inventarci un’iniziativa, una strategia parlamentare, che potessero in qualche misura condizionare le scelte del nostro governo.

Mi soffermerò brevemente, come mi è stato richiesto, sul Bianco parlamentare europeo. Nella delegazione popolare italiana eletta nella IV legislatura, 1994-1999, eravamo in 12, quasi tutti con formazione ed esperienza politica di qualche rilievo. Mentre altri colleghi italiani presenti nelle legislature precedenti si sentivano sacrificati a Bruxelles “perché la politica si fa a Roma”, noi no, eravamo stati parlamentari nazionali ed eravamo tutti consapevoli del fatto che sempre più “la politica si fa a Bruxelles”. E, con questo spirito, abbiamo cominciato a lavorare sodo, a cercare relazioni dentro e fuori il gruppo Ppe, a spiegare cosa stesse succedendo in Italia dopo il crollo della Dc, a rassicurare i colleghi del nostro proposito di tornare a essere rilevanti.

Cominciammo dalle delegazioni della Germania e della Baviera, Cdu e Csu, e, in particolare, dal proposito di creare un rapporto privilegiato con il Cancelliere Kohl, il leader sicuramente più rilevante nell’Europa in quella fase storica, con cui Gerardo Bianco ha sempre avuto ottimi rapporti. L’elezione di Gerardo alla segreteria del Ppi avvenuta proprio all’inizio della legislatura europea, lo rese ancora più autorevole: se, fino a quel momento la sua era stata un’autorevolezza morale e culturale, da quel momento in poi divenne decisamente politica. Quando interveniva nel Gruppo parlamentare, in Commissione e in Parlamento,  era ascoltato con crescente interesse. Il Gruppo Ppe gli affidò il coordinamento del cosiddetto Gruppo di lavoro “A” a cui afferivano le attività delle commissioni parlamentari Difesa, Giustizia e Politica Internazionale, le commissioni più importanti solitamente coordinate da un ex Capo di governo, visto che tra i colleghi Ppe ve ne erano diversi. Da quel momento capimmo che, seppur numericamente molto ridotti dall’esito delle elezioni europee 1994, avevamo recuperato agli occhi dei colleghi stranieri buona parte dell’antica considerazione. Eravamo cioè tornati ad essere l’espressione di quella tradizione cattolico democratica risalente a Sturzo, De Gasperi e Moro.

Ricordo bene un episodio importante. Alla vigilia delle elezioni politiche italiane del 1996, quelle dell’Ulivo, Bianco era a Roma per fare le liste e voleva inserire in quelle del Ppi Carlo Azeglio Ciampi. Ma in quel momento a Roma non era reperibile, perché si trovava a Bruxelles. Bianco mi chiese di andarlo a trovare in albergo per fargli personalmente la proposta: “Se hai convinto me a fare il segretario del PPI, adesso cerca di convincere lui ad entrare nella nostra lista”, mi disse. Ci provai, ma non riuscii. Ricordo ancora quel paio d’ore di colloquio, ma soprattutto le parole di Ciampi: “Guardi Castagnetti io sono un cattolico particolare, non provengo alla vostra storia, perché il mio maestro, il filosofo Guido Calogero con cui ho fatto la Resistenza, mi convinse sin da giovanissimo ad avvicinarmi al Partito d’Azione: ero rispettatissimo come credente in un gruppo formato, prevalentemente, da non credenti, un’esperienza che mi ha arricchito enormemente. Ma, adesso, il Ppi di Bianco, mi intriga moltissimo, sia perché ho una grande stima di Gerardo, sia perché è un partito non personale, frutto anzi di una resistenza in nome della dignità politica e di una straordinaria lucidità programmatica. Bianco guida un partito che vuole difendere la Costituzione rispetto alle insidie della nuova fase e promuovere un ulteriore sviluppo dell’Europa. Sento che questo è il mio programma. Ma sono stato governatore della Banca d’Italia e Capo di un governo largamente unitario e, se accettassi la vostra proposta, sentirei di non fare una cosa giusta. Ma domani, se l’Ulivo vincerà e avesse bisogno di un mio contributo, dica a Bianco che su di me potrà contare”. E così avvenne. 

Ricordo ancora quando, all’indomani di un incontro bilaterale a Valencia di Prodi e Ciampi con il premier spagnolo Aznar, per una comune valutazione dell’opportunità che i due paesi entrassero sin dal primo momento o piuttosto in una fase successiva nell’UEM, considerate anche alcune titubanze manifestatesi in aree minoritarie delle rispettive maggioranze parlamentari, Gerardo Bianco assunse a nome del suo partito una posizione netta e intransigente a favore dell’ingresso immediato dell’Italia, che Ciampi stesso riconobbe essere stata decisiva, in una conversazione a casa del comune amico Francesco Merloni, a cui ebbi l’opportunità di partecipare pure io.

L’Europa. Si, Gerardo Bianco era un convintissimo europeista. A Bruxelles e a Strasburgo, alle cene fra colleghi durante le plenarie, a Gerardo capitava spesso di animare un intergruppo informale, che potremmo definire ipereuropeista, alla De Gasperi e alla Spinelli per intenderci, assieme ad alcuni colleghi della nostra delegazione e altri colleghi come Augias, Carniti, De Giovanni, Manzella, Ruffolo, in cui si discuteva in libertà, ma con grande passione e una certa intelligenza storica, di futuro, di Italia e di Europa. Perché Bianco era maestro nel creare occasioni in cui con una certa lievità si costruivano relazioni umane e nuove prospettive politiche.

Bianco è sempre stato un vulcano di idee, un fuoco con almeno un tizzone sempre vivo. A Bruxelles intratteneva poi relazioni politicamente utili con molti altri colleghi stranieri. Con Otto d’Asburgo, figlio di Carlo, ad esempio, con cui si compiaceva di fare lunghe e divertenti conversazioni, rigorosamente in latino. Gli piaceva discutere con Efthimios Christodoulou, già governatore della Banca centrale della Grecia e buon amico dei nostri governatori Carli e Ciampi, con cui si parlava di strategie economiche per i paesi sud-europei: è anche da quei colloqui che nacque l’idea della Conferenza di Barcellona e dell’ipotizzata Banca Mediterranea, alla cui sede Bianco candidò la città di Napoli.

Con i vecchi amici democristiani, della Dc antifranchista catalana, José Maria Gil-Robles (scomparso in questi giorni) e Íñigo Méndez de Vigo, si intratteneva spesso a parlare di rischi delle nostre democrazie, che già allora si mostravano esposte ai venti dell’antipolitica. Ricordo ancora l’evocazioni di articoli di “Cuadernos para el diálogo”, la rivista fondata da Joaquín Ruiz-Giménez, una rivista su cui scrivevano e si formavano democristiano spagnolo e democristiani italiani. E si parlava dei grandi leader italiani, da De Gasperi a Moro, riconosciuti maestri da tutti i democristiani del continente. Ma c’erano soprattutto i discorsi, gradevoli e apparentemente lievi e insieme impegnati, fra noi colleghi della delegazione italiana, in cui Gerardo aveva ritrovato fra gli altri il vecchio compagno di battaglie politiche importanti, Pierantonio Graziani, quando entrambi assieme a De Mita, militavano nella corrente della Base. “Eravamo della sinistra DC, una sinistra più degasperiana che dossettiana, diceva Gerardo, e avevamo una grande ambizione, quella di sfidare sul terreno del riformismo – una volta messa in sicurezza la scelta dell’Occidente e dell’Europa – la sinistra italiana, perché, aggiungeva, essere di sinistra non significa necessariamente essere ideologici, ma fare cose per cambiare le cose”.

[Discorso tenuto ieri, 15 febbraio, Aula dei Gruppi parlamentari – Roma]