Confesso che, forse romanticamente, ho atteso di essere in Puglia per leggere gli ultimi capitoli del bel libro di Lucio D’Ubaldo, che per me chiude un ciclo di letture cominciate lo scorso aprile con il bel saggio di Enrico Farinone sul discorso di Moro al congresso di Napoli. Lucio svolge egregiamente la sua amata funzione di storico ed ancor più di filosofo, che gli è propria, con una scelta, direi fondamentale, di non raccontarci solo la coerenza del “giovane Moro” ( coerenza di approfondimento, ascolto e svelamento della complessità che a differenza di altri manterrà perfino negli ultimi giorni della sua vita a contatto con i suoi carcerieri) con il resto della sua vita ma anche del confronto con i giovani nei diversi tornanti della vita sua e della nostra Repubblica, nel sessantotto come nel 1977, senza cedere alla retorica di tanta memorialistica.

Anzi, accanto alle parole di Moro, Lucio ci mette molto del suo “mestiere” storico filosofico per fornirci un quadro ed una panoramica di quei movimenti politici e sociali.
Debbo dire che la lettura del ‘68, ed anche per esempio il confronto con le modalità politiche d’affrontarlo Oltralpe gettano una luce nuova che potrebbe ambire ad un ridisegno, meno mitologico e più concreto, di quello che fu quel movimento. Mentre sul 1977 accetto la sua fedeltà alla lettura del tempo ma chiederei un supplemento
d’indagine – conoscendo più da vicino i fatti – per una generazione che era costretta a prendere atto della fine delle speranze del “we shall overcome” per vivere un disagio permanente quotidiano.Qui dentro, anche dentro certe distruttivitá strutturali, si trovano i germi di ciò che é poi arrivato fino a noi nel bene e nel male.

Lucio riesce perfettamente a disegnare l’atmosfera in cui Moro dispiega dalla giovane età alla sua fine, il suo ragionamento in forma coerente, con i suoi modi certo, ma soprattutto “pensando la politica”, oltre che facendola quotidianamente (qui mi permetto accanto a Sturzo e De Gasperi il riferimento a Dossetti che per tante ragioni agì meno la politica dei due grandi citati ma come Moro “pensò” la politica e il cambiamento sociale del Paese, ed a cui non bastava solamente iscriverlo nella Costituzione…).

Per questo l’argomentare di Lucio è anche una sorta di “giallo” (mi concederà la licenza poetica), perché inizia col Moro Giovane, ci lascia sospesi nel racconto di alcune temperie della Repubblica e poi quel “giovane Moro” lo ritroviamo nelle conclusioni, per comprendere come la sua gioventù, i suoi scritti giovanili non siano,come per altri leaders, un “unicum” piegato poi dalle ragioni fredde della concretezza al passare del tempo,ma una solida roccia di carattere Montiniano che lui àncora al proprio tempo, al tempo da amare appunto, che è anche “il tempo in cui ci é dato vivere”.

Il libro non si inscrive alla memorialistica retorica su Moro, lo rende vivo, presente e ci interroga e si interroga sul presente ed il futuro. Un altro pregio della riflessione di Lucio.

(Tratto dal profilo Fb dell’autore)