Alle origini del rischio educativo e del disagio scolastico

Ci sono minori che dicono “la scuola non è fatta per me”, “non ce la faccio”. Allora li si aiuta con il sostegno scolastico o con interventi educativi domiciliari che a volte facilitano l’apprendimento e il recupero dell’autostima.

Articolo già pubblicato sulla rivista “DPU- DIRITTO PENALE e UOMO – Rivista internazionale di studi giuridici e antropologici

Cresce il numero delle segnalazioni che le scuole inoltrano ai tribunali minorili per rappresentare situazioni di forte disagio riscontrate negli alunni, al di là dello “scolasticamente risolvibile”, con motivazioni variegate rispetto alle esperienze e ai vissuti, oltre che dense di significati impliciti o difficilmente intellegibili. 

Da molti anni il sistema scolastico del nostro Paese presta particolare attenzione al tema del diritto allo studio, inteso come domanda sociale di istruzione ma anche come strumento per sviluppare le potenzialità di crescita intellettuale, emotiva, relazionale di ciascuno attraverso un’offerta di opportunità formative sempre più individualizzate e mirate. Disagio scolastico e insuccesso educativo riguardano bambini e adolescenti che in diversa misura non riescono a compiere il percorso dell’obbligo, che si assentano dalle lezioni per periodi a volte talmente lunghi da compromettere l’esito dell’anno scolastico ma questa “inadempienza” è sovente la punta di un iceberg che nasconde situazioni più complesse, cui la scuola da sola non sempre riesce a tener fronte, indipendentemente dalla collaborazione o viceversa dal disimpegno delle famiglie. L’esperienza di ascolto dei minori che attraversano momenti di difficoltà rispetto alla frequenza scolastica consente di risalire alle motivazioni che hanno originato il “gap”, il distacco, l’allontanamento dal contesto formativo: la pratica del colloquio con i bambini e gli adolescenti, se condotto con la dovuta delicatezza e senza modalità intrusive, non serve solo per conoscere ma possibilmente per aiutare, indirizzare, risolvere. Emergono problematiche di tipo personale e motivazionale, il timore di “non farcela”, i brutti voti, la percezione del clima relazionale con insegnanti e compagni sovente vissuto come ostile, i compiti a casa non svolti, le lezioni non apprese, la fatica di applicarsi sui libri, la presenza di alunni ritenuti ineguagliabili in quanto a successo e valutazioni positive.

Sono vissuti negativi interiorizzati e tradotti in blocchi emotivi e all’apprendimento, rispetto ai quali un bambino o un ragazzo si sente “perdente in partenza” perché non gli riuscirà mai di vincere la frustrazione dell’insuccesso e della vita di classe intesa come competizione. E allora ci si rifiuta di frequentare, si sta a casa, in quella nicchia molto rassicurante che va dal proprio letto alla play station, dal divano alla Tv.

Ci sono minori che dicono “la scuola non è fatta per me”, “non ce la faccio”. Allora li si aiuta con il sostegno scolastico o con interventi educativi domiciliari che a volte facilitano l’apprendimento e il recupero dell’autostima. Anche oltre il contesto familiare di appartenenza a volte deprivato, altre invece partecipe e collaborativo. Ci sono anche storie di bullismo che escono dai racconti dei ragazzi: questa è una condizione di sofferenza socialmente in crescita, che incute terrore per le violenze fisiche e psicologiche subìte, le derisioni, lo stalking, storie da cui esce l’immagine di un’infanzia e un’adolescenza non sempre innocenti, di compagni che si accaniscono verso i coetanei con una pervicacia e una cattiveria sorprendenti anche se non di rado i “bulli” sono essi stessi l’impersonificazione di un disagio esistenziale non compensato ne’ a scuola ne’ a casa, la loro aggressività emula comportamenti altrove appresi con troppa facilità (cattivi esempi, Tv “spazzatura”, viaggi in rete …senza rete, dileggio e turpiloquio come parlare abituale, stili di vita trasgressivi e senza inibizioni).

Tra le cause più frequenti di inadempienza e di abbandono della scuola ci sono anche storie familiari critiche: i minori vivono intensamente ad esempio – oltre ciò che direttamente esprimono – la separazione dei propri genitori, la reciproca ricostituzione di legami affettivi o familiari nuovi che  li fanno sentire veri e propri estranei.  Sia che si tratti di situazioni conflittuali tra genitori o di contesti “abbandonici” i figli diventano – come direbbe Gilbert Cesbron  (e il suo giudice Lamy) “cani perduti senza collare”: i minori emarginati o abbandonati dagli ambiti familiari di origine o – viceversa – i figli di genitori in conflitto stanno diventando due categorie sociali dai contorni netti e dai connotati devastanti. La scuola diventa per loro, a poco a poco, un ambiente estraneo, persino inutile, un luogo dove si teme di render conto della propria condizione di inadeguatezza, una cosa che non serve. 

I figli che soffrono legami affettivi deteriorati diventano alunni “difficili”, demotivati, fragili, si sentono “diversi” dagli altri. E non vogliono più andare a scuola. Oppure – capita sempre più spesso, anche se sembra incredibilmente doloroso che ciò possa accadere – che siano loro stessi, rendendosi conto dell’assenza di uno o entrambi i genitori dalla loro vita, a chiedere un collocamento in “collegio”.

La mamma mi ha detto: “Sai, sto aspettando un bambino dal mio nuovo compagno, non ho molto tempo per te”…. “la fidanzata di papà mi ha mandato un whatsApp: non metterti di mezzo nella nostra vita”.

E allora chiedono: “Ma tu mi puoi mettere in una comunità?”.  E’ straziante ma accade proprio così.