Articolo già pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Bruno Bignami

Amatrice commemora l’illustre concittadino don Giovanni Minozzi in occasione del centenario dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia (15 agosto 1919 – 15 agosto 2019). Il filo rosso del suo impegno educativo, già maturato nel solco tremendo della Grande guerra, è confluito cento anni fa nella cura per gli orfani e si proietta nel futuro dopo i tragici eventi del terremoto. 

L’idea di aprire l’Opera per il Mezzogiorno nasce nel novembre 1918, a conclusione della guerra, quando don Giovanni, nato a Preta di Amatrice, espone il suo progetto all’amico barnabita Giovanni Semeria, già cappellano al Comando generale di Cadorna. Viene pensato come un impegno concreto per il dopo-conflitto. In quel momento don Minozzi rivela anche la sua profonda spiritualità: «Unire la coltura alla carità ho sempre desiderato. La coltura senza la carità è arida, infeconda: solo la carità anima tutto. Cristianesimo senza ardore di carità attiva mi pare un non senso, un assurdo. Amo Ozanam per questo».

Don Minozzi era partito per il fronte orientale italiano il 10 giugno 1915 in servizio sul secondo treno ospedaliero allestito dal Sovrano Ordine Militare di Malta. Era destinato nel Cadore, a Calalzo, in provincia di Belluno. Da subito, intende capire come funziona realmente la prima linea, vuole conoscere quali sono le vere necessità dei soldati, si prepara ad assumere un ruolo attivo all’interno dell’«inutile strage». Il suo diario, Ricordi di guerra, è una ricostruzione fedele del periodo, senza trascurare crisi e difficoltà. Egli, da patriota convinto, non si lascia andare a esaltazioni mitiche degli anni bellici. Anzi, ne evidenzia aspetti problematici e questioni irrisolte. Descrive la cruda realtà, mettendo in luce l’inadeguatezza dei quadri dirigenti. Parla di «generali limitati d’esperienza, corti di vista, mediocri d’ingegno e scarsamente quindi capaci di comando», presenti numerosi nello schieramento italiano al fronte «per moltissimo tempo». 

Si deve quindi al suo genio pedagogico l’idea di creare dei luoghi di umanizzazione a ridosso della linea del fronte per creare spazi alternativi alle osterie o alle case di prostituzione e per offrire occasioni di sano incontro per i giovani militari. La prima istituzione è la “Sala ritrovo”, nata a Calalzo di Cadore già nel giugno 2015. L’organizzazione della Sala è la risposta a una domanda: cosa fare davanti a centinaia di militari che si ammassano nel centro del paese annoiati e «inaspriti in un ozio acido e rissoso»? 

Dalla “Sala ritrovo” alla “Casa del soldato” il passo è breve. Il progetto matura a fine estate 1916 e parte dalla seguente considerazione educativa di don Minozzi: «Farli riposare poi, i combattenti, farli svagare bisognava, confortarli, rasserenarli, riconciliarli con la vita, di tra le lacerazioni cruente e le ingiustizie svergognate, distrarli come ragazzi ammusoniti e stanchi, strapparli, arieggiandoli, alle fissazioni di patimenti che si esacerbavano crudi in gorghi vorticosi. Cordialità larghissima si chiedeva insomma, interessamento fraterno per tutto quanto riguardava loro personalmente e le loro famiglie; comprensione pronta, immediata; assistenza affettuosa, sincera all’esterno; animo aperto a ogni forma di generosità più squisita. Il resto veniva, sarebbe venuto da sé».

L’idea delle “Case del soldato” non nasce però a esclusivo servizio dei militari. Don Minozzi si rende conto, infatti, della necessità di creare occasioni di incontro e di formazione anche per il clero in guerra. Il divario tra i cappellani e i preti-soldato, confratelli destinati a mansioni più umili e faticose, è avvertito sin dai primi mesi in guerra. Senza una cura spirituale «s’inacidivano i poveri preti sbandati, inquieti, nervosissimi», sempre più abbandonati a se stessi. I cappellani, invece, «ringalluzziti nella uniforme di ufficiali» e in condizioni economiche più agiate, stanno alla larga dagli altri, li guardano dall’alto in basso, li considerano inferiori, come truppa e massa da comandare.

Le “Case del soldato” si strutturano sulla falsariga delle “Case dell’operaio” cresciute nell’ambito dell’Opera Bonomelli e creano un circuito virtuoso di attività: dalla possibilità di leggere libri al gioco organizzato a gruppi o per masse (lotterie, albero della cuccagna), dalla musica al cinema, dallo sport (bocce, calcio, ginnastica) al teatro, dalla scuola per analfabeti alla possibilità di scrivere lettere alla famiglia, dalle conferenze spirituali e culturali ai momenti di svago, dalla rivendita alimentare a esperienze di animazione.

Che la carità sia l’unica seria risposta ai drammi della guerra diventa la convinzione di don Minozzi, condivisa con padre Giovanni Semeria. Inter arma caritas è il titolo di una conferenza che il barnabita tiene a Padova il 17 aprile 1917. Dalla loro amicizia si sviluppa il progetto dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, che aprirà i battenti il 15 agosto 1919. L’istituzione si impegna ad accogliere ed educare gli orfani, specialmente nelle regioni del sud Italia, ovvero in quei territori più dimenticati e dove invece si era realizzato il maggior numero di reclute di soldati. Il 25 luglio 1917 l’idea è proposta a Papa Benedetto XV. In una lettera Semeria espone le motivazioni delle “Case di orfani di guerra”. «Orfano io stesso di padre per la guerra del 1866, verso gli orfani di questa immane guerra mi sento personalmente inclinatissimo». L’attenzione al Meridione è frutto di una solidarietà maturata negli anni del conflitto: chi ha pagato di più le conseguenze della guerra sono i figli dei contadini. Per questo bisognava educarli affinché rimanessero legati alla loro terra, senza finire nel facile miraggio dell’emigrazione o del malaffare.

All’Opera, pensata e diretta da padre Semeria e da don Minozzi, collaborano da subito alcune congregazioni religiose femminili, che si mettono a disposizione per il bene del progetto. Per darvi continuità don Minozzi fonderà, nel 1931, la congregazione religiosa della Famiglia dei discepoli e nel 1940, con la collaborazione di madre Maria Valenti, la Pia associazione femminile delle Ancelle del Signore. Anche molti laici danno il loro contributo perché l’istituto possa camminare e diventare provvidenza per numerosi ragazzi rimasti orfani di guerra.

Il seme gettato nel solco di un evento terribile come la guerra giunge così a piena maturazione. Si fa strada come opera benemerita nel secolo scorso, a favore degli ultimi tra gli ultimi: i bambini abbandonati e rimasti orfani. Don Minozzi porta a compimento una vocazione squisitamente educativa del suo ministero. La sua paternità verso i giovani soldati, la cui umanità era in pericolo nel degrado della guerra, confluisce in una paternità sostitutiva nei confronti di chi non avrebbe più potuto abbracciare il padre terreno. Ha testimoniato una vita illuminata dall’urgenza della carità (2 Cor 5,14).

A cento anni dalla fondazione, Amatrice vive una stagione di memoria e di ricostruzione. Il dramma del recente terremoto — di cui proprio il 24 agosto ricorre il terzo anniversario — rimane una ferita aperta. Anche l’Opera ha subito danni irreparabili ed è stata nei giorni del sisma luogo del compianto e del lutto. Il progetto della “Casa del futuro” rappresenta il tentativo della comunità cristiana odierna di custodire la passione educativa di don Minozzi. Sui resti dell’Opera per il Mezzogiorno, che occupa 18 mila metri quadrati di spazio, sorgerà una struttura con quattro corti, in grado di accogliere il Museo diocesano (Muda), la sede dell’Opera nazionale con servizi per anziani, un punto di accoglienza per ragazzi e un luogo per la formazione di giovani alle arti e ai mestieri. 

La fantasia educativa di don Minozzi non conosce soste…