Fonte Associazione Popolari a firma di Giuseppe Ladetto

Nel dibattito politico abbiamo ascoltato frequentemente l’accusa di “nazionalismo” nei confronti dei cosiddetti “sovranisti”. Ma come detto in altro articolo (Tra nazione e nazionalismo), il nazionalismo non consiste nella difesa di una propria cultura identitaria e di un proprio modo di vita, ma è teso ad esaltare la propria nazione considerata superiore alle altre per razza, cultura, civiltà o istituzioni politiche, traducendosi in atti di forza tesi a dominare altri popoli e ad espandere territorialmente, militarmente o economicamente il proprio Paese. Quando si indicano la Russia e la Cina come paesi nazionalisti, si possono ritrovare elementi a sostegno della tesi.

Tuttavia, non vedo mai citare fra questi gli Stati Uniti che pur uniscono in sé tutti gli elementi che caratterizzano la definizione di nazionalismo: si considerano superiori agli altri Paesi, si ritengono indispensabili per il mondo e manifestamente destinati a governarlo; sono la nazione che spende di più per le forze armate e gli armamenti (più del 40% della spesa mondiale che giunge a oltre il 60% con gli “alleati” della NATO), che dispone del maggior numero di basi militari disseminate per il mondo e che negli ultimi 50 anni ha condotto il maggior numero di guerre o interventi militari in varie parti del globo.

Ma solo accennare a tale fatto scatena le indignate risposte della più parte dei politici, intellettuali, esponenti del giornalismo e della comunicazione: questi subito ricorrono all’accusa di “antiamericanismo” per mettere a tacere l’imprudente che avesse osato introdurre questo argomento.

Eppure è arduo negare l’evidenza degli elementi sopra indicati. Infatti chi ha abbastanza pudore per non nasconderli ricorre ad un’altra argomentazione: gli Stati Uniti non possono essere accusati di nazionalismo perché sono un impero, come lo era Roma nel mondo antico. Una concezione imperiale è sorretta da una visione universalistica tesa ad unificare il mondo portando a tutti i benefici che contrassegnano la vita del Paese leader e soprattutto a realizzare la pace universale.

Prendiamo al momento per buona tale definizione. Però, né Roma ieri, né gli USA oggi hanno il monopolio di tale vocazione imperiale: Cina e Russia potrebbero proporsi come candidate, soprattutto la Cina che si definisce “comunista”, ed il comunismo ha certo una impronta di taglio universale.

Ma ci dice Joseph Nye, studioso di relazioni internazionali, che, a tal fine, occorre il potere: questo consiste nella capacità di chi lo esercita d’indurre gli altri ad agire in base alle proprie aspettative. Per fare ciò (indurre gli altri) ci sono tre modi: con la coercizione (le armi), con il denaro (la forza economica), con la capacità di attrazione e di persuasione (la diffusione della propria way of life).

Gli Stati Uniti dispongono delle tre dimensioni del potere in rilevante misura (militare, attrattiva e, per quanto non più come un tempo, economica). Cina e Russia no: anche se la prima dovesse superare gli USA nell’economia, resterebbe a lungo indietro sul piano militare e soprattutto su quello attrattivo; la Russia ha una economia debole (il PIL e il reddito pro capite sono 1/7 e 1/3 di quelli USA), una struttura istituzionale e un sistema giuridico inefficienti, e manca di un potere attrattivo; la sua forza è esclusivamente militare. L’atteggiamento ostile degli USA nei confronti della Russia viene dal fatto che Mosca costituisce un pericoloso elemento di disturbo revisionista dello status quo, catalizzatore per altre potenze infastidite dalla preminenza americana.

Alessandro Barbero, in una trasmissione televisiva dedicata alla storia, ha rilevato che un impero non può tollerare la presenza di un altro impero (anche se difettoso dei requisiti necessari) e neppure di nazioni che non gli si sottomettano o contestino lo status quo imperiale. Perché Napoleone ha voluto imbarcarsi nella difficile impresa di invadere la Russia, tragicamente finita per l’esercito invasore? Lo storico risponde che non fu per la ragione messa in campo dall’imperatore francese (la Russia non rispetta il blocco commerciale antibritannico), ma perché Napoleone vedeva nella Russia un impero che poneva limiti all’espansione dell’impero francese, il solo ritenuto giustificato perché portatore dei valori illuministici.

È opinione diffusa che gli imperi nascano da una concezione universalistica o comunque da un disegno o una vocazione presente fin dalle origini della nazione a ciò predestinata. Tuttavia, ci dice Dario Fabbri che tale vulgata politologica non corrisponde alla realtà. È del tutto inavvertitamente che certe nazioni si tramutano in imperi: in un primo tempo, si espandono sul territorio per accrescere la propria profondità difensiva; in seguito, acquisiti nuovi territori e domini, possedendo idonee capacità demografiche e tecnologiche od organizzative, continuano ad espandersi per accaparrarsi delle risorse necessarie alle nuove esigenze di grande potenza..

Roma, nei primi secoli, era una delle tante città del Lazio in lotta con i vicini per impossessarsi delle terre migliori e delle vie di comunicazione. A tal fine, le era sufficiente un esercito di entità modesta, fatto di cittadini, in prevalenza contadini, che lasciavano i campi e prendevano le armi quando necessario. Con l’espandersi del territorio conquistato, per difenderne le acquisizioni, l’esercito è stato via via numericamente accresciuto fino a diventare permanente, con una lunga ferma, e dipoi formato di soli professionisti. Anche il governo dello Stato e l’amministrazione dei territori conquistati hanno comportato la formazione di un idoneo corpo di funzionari. Così i costi dell’organizzazione civile e militare hanno richiesto crescenti tributi da parte dei Paesi assoggettati e spinto a nuove conquiste. Inoltre, poiché l’appetito viene mangiando, le ricchezze (terre, bottino, schiavi) acquistate con le vittorie sono diventate necessarie per sostenere il tenore di vita, diventato più dispendioso, delle classi dirigenti e della popolazione romana. In tal modo, nasce la vocazione imperiale che si fa tanto più marcata quanto più si espandono le conquiste e complessa l’organizzazione e gestione statale. È quanto contrassegna la genesi e lo sviluppo di ogni impero anche ai nostri giorni. Semmai la complessità delle società e delle formazioni statali moderne accresce ancor più questo nesso tra spinta espansiva ed esigenze di sopravvivenza degli apparati militari, burocratici e economico produttivi (ad esempio l’industria degli armamenti) che caratterizzano le grandi nazioni odierne e ne sostengono l’espansione.

Scrive Dario Fabbri che gli imperi durano fino a quando non si esauriscono i presupposti strutturali che li hanno determinati, non certo per volontà dei politici che li governano. Negli Stati Uniti, periodicamente emergono (in specie in campo repubblicano) tentazioni isolazioniste per la stanchezza che genera la politica imperiale con i suoi costi e il tributo di “vite americane”. Inoltre, una tale politica comporta un crescente peso degli apparati centrali a discapito degli Stati di cui è composta la Federazione, e in sostanza comprime la vita democratica. Oggi, di questa stanchezza si è fatto interprete Donald Trump, ma i suoi tentativi di voltare pagina sembrano destinati all’insuccesso proprio per la reazione degli apparati securitari scesi in campo con tutta la loro potenza per propugnare il perseguimento di una politica estera imperiale. E con ogni probabilità saranno destinati all’insuccesso analoghi tentativi di disimpegno di cui potrebbero farsi portatori personalità di parte democratica, come Bernie Sanders (la cui candidatura nelle passate primarie è stata contrastata con ogni mezzo).

Gli Stati Uniti, come scrive Dario Fabbri, mantengono tuttora intatte le condizioni che ne hanno consentito l’ascesa imperiale (il controllo delle vie marittime, lo strapotere tecnologico, l’approccio messianico alle vicende umane, la capacità di attrarre giovani immigrati idonei ad essere impiegati nelle forze armate) e continueranno ancora per molto tempo a essere l’unica superpotenza globale.

Altri politologi la pensano diversamente a partire da Henry Kissinger. Essi ritengono che il mantenimento della leadership planetaria sia un’ impresa che si fa sempre più difficile e pesante in un mondo in cui nuovi attori sono comparsi, altri si sono rafforzati e dove l’attrattiva dell’american way of life è ancora forte, ma non più come in un passato ancora recente. Kissinger in particolare ritiene che l’assetto unipolare sia oggi avviato a un inarrestabile declino. Se non se ne prende atto in tempo e si continua a procedere sulla vecchia strada, la situazione è destinata a diventare sempre più pericolosa, poiché ne risultano incrementati terrorismo, tensioni, guerre, crisi di vario ordine, con il rischio di una guerra su scala mondiale disastrosa per tutti.

Non sta a me entrare in questo dibattito che vede coinvolti qualificati esperti di cose internazionali. Devo  tuttavia fare una considerazione. Quale che sia il giudizio sull’impero americano, è certo che la logica imperiale (a qualunque formazione statale appartenga) non assicura la pace universale, ma va nella direzione opposta: solamente da essa infatti possono venire  reali pericoli di una guerra estesa e devastante.

Ora ritornando a quanto detto in apertura dell’articolo, appaiono ingenue le preoccupazioni di coloro che nel nostro Paese denunciano i sovranisti quali pericolosi guerrafondai. A questi si possono fare molte giustificate critiche, ma appartengono alla mera propaganda affermazioni strumentali del tipo di quella fatta da Mario Monti in vista delle elezioni europee: “Se vincono i sovranisti, ci sarà la terza guerra mondiale”.

È arduo immaginare che i pericoli di guerra possano venire da Paesi europei (chiunque ne sia al governo) o dalle loro contrapposizioni per motivazioni che mai hanno rilevanza geopolitica. In un mondo globalizzato in cui sono presenti potenze di grandezza quasi continentale, la stessa ridotta dimensione dei Paesi europei, il loro modesto potenziale umano e l’età media elevata della popolazione dovrebbero essere elementi  sufficienti per far capire che da tali paesi non possono venire minacce allo status quo planetario tali scatenare una guerra mondiale.

Di fatto, la sola guerra oggi presente in Europa è quella che ha luogo in Ucraina, una guerra che trova motivazione nella volontà statunitense di ridimensionare la Russia espandendo sempre più ad est la NATO e destabilizzando a tal fine i Paesi ad essa limitrofi (Ucraina, Bielorussia, Georgia) che hanno storicamente profondi legami etnici, culturali, religiosi ed economici con Mosca.