Occorre ascoltare e poi interrogarsi sui perché di questo messaggio uscito delle urne: se non c’è un cambiamento reale, la disillusione e lo scetticismo sono destinati a prevalere nell’elettorato.  

Il primo turno delle elezioni amministrative ha già dato delle indicazioni chiare. La vittoria dei candidati del centrosinistra a Milano, Napoli e Bologna, il buon andamento del Pd, il previsto crollo del Movimento Cinque Stelle, la sconfitta del centrodestra, tranne che alla regione Calabria, lo “sgonfiamento” della Lega di Salvini. E anche il ritorno alla sfida tra centrodestra e centrosinistra ai ballottaggi del 17-18 ottobre prossimo, a partire dalle città di Roma e Torino nei quali ballottaggi nel 2016 andarono invece i Cinque Stelle.

Ciononostante il responso più importante proveniente da questa tornata elettorale appare un altro, quello della partecipazione al voto. L’affluenza alle urne è stata all’incirca del 54%, mai così bassa, varcando in alcuni casi la soglia della maggioranza assoluta del corpo elettorale.

In particolare nelle metropoli del Nord, dove di solito la partecipazione era più alta, il tasso di astensionismo lascia impietriti non solo nelle percentuali, ma anche per composizione sociale.

Da una prima analisi svolta da You Trend di Lorenzo Pregliasco sulle maggiori città, si è registrata una più alta percentuale di partecipazione al voto nei quartieri più ricchi rispetto a quelli periferici dove l’astensionismo è dilagato. Ovviamente ci sarà tempo e modo per analizzare questo fenomeno. A caldo si possono già formulare alcune tracce per l’analisi e la riflessione.

Quanto può aver influito su questo astensionismo record la qualità dei candidati? Curiosamente, su questo punto, si registra una assonanza di valutazioni da parte del centrosinistra che rivendica fra i motivi della vittoria la debolezza dei candidati del centrodestra, e molte voci di primo piano del centrodestra che nella loro autocritica individuano il medesimo limite.

Un’altra concausa della bassissima affluenza può esser stato il conclamato fallimento delle forze populiste che nel 2016 e nel 2018 riuscirono ancora a mobilitare una ampia fascia di elettorato che ora invece appare disillusa.

La mia impressione è che le cause di una cosi forte disaffezione al voto siano ancor più strutturali non legate (solo) al contingente, non riducibili alla dialettica fra schieramenti diversi poiché anche la coalizione progressista ha subito ben prima un’emorragia di consensi, soprattutto fra il suo elettorato tradizionale popolare.

In questa débâcle della partecipazione credo che possa aver giocato un ruolo non secondario anche la sensazione da parte di ampi strati sociali di esser stati dimenticati da un mondo politico che in gran parte sembra più propenso a ricevere la propria legittimazione dall’alto e dall’esterno piuttosto che dalle rispettive basi elettorali, che nei fatti fatica a dare segnali di autonomia, accettando quasi acriticamente, anche mettendo a repentaglio la propria credibilità, un’agenda che viene calata dall’alto, da gruppi di interesse troppo ristretti, avidi ed ottusi, senza più le necessarie mediazioni.

La politica ascolti e si interroghi sui perché di questo messaggio delle urne, nell’orizzonte che ha ben delineato l’amico Armando Dicone di fronte all’astensionismo record nelle nostre città: “Fare finta di niente o riformare la politica? Servono partiti veri, con democrazia interna, ideali, valori e programmi realizzabili”.

Senz’altro questo è il punto da cui ripartire per i cattolici democratici e popolari.