Lo scritto che segue fa riferimento all’articolo apparso ieri sul Domaniditalia a firma del Direttore Lucio D’Ubaldo, che, tra arguti flash (da un Di Maio rivisto come socialdemocratico a un Pd con cuore di antica sinistra e pratica neo-centrista), riflettendo sulla crisi del centro sinistra, approda ad una conclusione di fondo:

“Manca una dottrina politica per la sinistra di centro o per il centro a sinistra”.

Sul tema della crisi del centrosinistra, nel cui ambito si colloca l’articolo, non bisogna aggiungere altre parole a quante già spese sulla sua grande difficoltà da qualche anno in qua. Da una parte il ridimensionamento subito in seguito alle recenti sconfitte elettorali, dall’altra un dibattito interno non certo immune da personalismi rendono assai incerto l’immediato futuro. Nel quale si proietta, ormai, anche la recente scissione di Italia Viva, che in troppi, nel centrosinistra, si attardano ancora a ridurre a questioni di stile di lavoro o di carattere di questo o quel personaggio.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la crisi del pd è parte di quella più ampia della sinistra europea e financo delle battute d’arresto dei movimenti progressisti d’oltre oceano. Né, soprattutto per quanto ci riguarda, possiamo tralasciare che le sconfitte recenti si innestano in processi decennali di revisione e di crisi delle culture di riferimento delle formazioni ex comuniste, ma anche, per altri versi, di quelle caratteristiche dell’impegno cristiano e cattolico. A Tal proposito, a grandi fermenti nell’area della cultura cattolica sul rinnovamento del suo impegno politico e sulla ricerca di un nuovo centro si accompagnano grandi perplessità sulla concreta percorribilità della ri-fondazione di una forza politica di centro facendo leva sull’identità religiosa. Non a caso Giorgio Merlo stesso, pur ribadendo una volta di più la propria fedeltà al valore della cultura cattolica come fondamento dell’agire politico, ne vede intransitabile il rilancio come vera e propria formazione politica.

Ambedue le grandi culture popolari del centro sinistra e della nostra democrazia appaiono stanche e deluse dei risultati e del consenso attualmente raccolti. Soprattutto appaiono incapaci di dare una risposta ad una domanda politica sempre più pressante: quella di una serie di soggetti che spingono per ricostituire una nuova, centrale, forza politica in grado di raccogliere  le varie espressioni di una cultura riformista, espressioni vuoi popolari, vuoi socialiste, vuoi cristiane, senza neanche escludere nessuna voce di quella destra moderata rintracciabile tuttora in FI.

Ma nonostante la grande dimensione di questa domanda ancora sostanzialmente virtuale, il Direttore del Domani scriveva ieri, anticipando nel sottotitolo il leit motiv della sua riflessione, che: “Manca una dottrina politica per la sinistra di centro o per il centro a sinistra”.  

E ha perfettamente ragione! Come si può pensare che la fine del socialismo reale possa avvenire dolcemente e senza colpi di coda, che sia possibile cancellare un passato glorioso, seppur ormai ingombrante, marciando, sotto la bandiera della rottamazione, verso un assetto più di centro che di sinistra? Né appare meno complessa la realtà di secolarizzazione della società che si impone alla cultura cattolica scesa in politica. Si tratta di affrontare questioni annose, come il massimalismo a sinistra e il minimalismo di culture diventate consociative, abituate dalla pratica della mediazione a trovare facilmente una collocazione moderata tra destra e sinistra. Si tratta, piuttosto, di dare nuova voce ad una vasta area comprendente realtà e soggetti spinti a convergere verso una proposta politica di riforme per il cambiamento, area tuttora priva di una vera e propria strategia del cambiamento.

Non vogliamo in questa sede affrontare questioni fondamentali, ma di portata così grande da chiamare in causa cosa abbandonare dei vecchi modi d’essere del centro sinistra, cosa invece mantenere in eredità dalle culture da cui proveniamo e, soprattutto, in che modo raccoglierle in un programma che agisca non solo sul terreno dell’economia (come tradizione della sinistra a partire dal marxismo), o su quello proprio della cultura cristiana (equità, volontariato, solidarietà), quanto soprattutto sul terreno diretto della politica come programma di una vera e propria riforma della democrazia e dello Stato; cioè, intervenendo sul terreno di quella che una volta veniva chiamata l’autonomia del politico.

E centrale appare, in quest’ottica, l’accenno fatto da D’Ubaldo alla questione della forma partito, perché è difficile approfondire il nesso tra forma organizzativa e linea politica di un partito senza mettere in discussione lo stretto legame tra architettura dello Stato e quella speculare del partito, o senza trovare rimedio (e i rimedi ci sono) alla questione della selezione della classe dirigente.

E’un programma ambizioso, ma necessario per rispondere ai grandi rivolgimenti in atto nella società (non solo italiana), la cui crisi non può essere risolta da semplici ricerche di un centro moderato tra opposti estremismi. 

Si tratta piuttosto di rispondere alle domande sempre più drammatiche provenienti dalla società, in termini di occupazione, sicurezza, benessere, equità. Domande espresse da masse enormi di giovani che chiedono un futuro, da donne vittime di violenze e disuguaglianze, da un mondo del lavoro in crisi di occupazione e di prospettive, vittima di disuguaglianze che aumentano sempre più il divario tra poveri e ricchi. Domande di una società che vuole tornare a crescere, economicamente, ma anche e soprattutto demograficamente.

Ma si tratta anche, sul terreno eminentemente politico-organizzativo, di trovare un’alternativa ai fallimenti di importanti istanze di cambiamento cercate in passato sul problema della stabilità politica del governare. Con Craxi e la sua proposta di presidenzialismo, con Tangentopoli e la fine della prima Repubblica, con la Bicamerale di D’Alema, infine con il Referendum di Renzi. Tutte occasioni di approdare a una forma di democrazia meno anarchica di quella attuale, tutte fallite.

In tale clima, certo non proprio facile, ognuno dovrebbe sentire il bisogno di tornare a precisare il senso delle scelte politiche compiute riflettendo, responsabilmente, sul passato e sul presente come condizione necessaria per poter  scegliere un percorso programmatico concreto. 

Assumersi  responsabilità dirette per non aver saputo impedire il declino è condizione necessaria per un soggetto che si pensi riformista. Rifiutare o minimizzare tali responsabilità vuol dire di fatto ammettere  di non aver più grandi obiettivi nazionali cui sentirsi legati.

Se riteniamo necessario fare un bilancio che parta dal passato levando uno squillo d’allarme sui rischi di un ritorno del PD verso forme corporative di stampo novecentesco, è perché tale bilancio è propedeutico ad avviare un discorso sulle riforme non fatte e da fare, con la consapevolezza che, nell’attuale magma in cui navigano le varie zattere riformiste, occorra definire meglio il senso, il programma e la forma della parola riformista.

Nello stesso tempo in cui guardiamo con grande curiosità ed attenzione al lancio del progetto di Renzi verso  un soggetto-movimento al di là delle tradizionali forme organizzative territoriali, in grado, quindi, di veicolare informazione, partecipazione e dibattito attraverso nuovi canali tecnologici, ci chiediamo anche se Renzi, che non lo ha saputo fare nel recente passato, sia in grado di lavorare, per la sua parte, alla definizione di quella dottrina di cui tuttora manca il centro virtuale e della quale parla Lucio D’Ubaldo. A questa domanda non ci sono, per ora, risposte, ci auguriamo che in tempi brevi sia possibile avviare con Italia Viva un dibattito per una ricerca comune e non certo per decidere una semplicistica adesione. Ma, per questo, occorre che intellettuali e dirigenti escano allo scoperto e si mettano all’opera, spero ancora insieme, come nel progetto originario del Pd.