Tratto dalla rivista il Mulino a firma di Bruno Simili

Il 26 maggio, alle europee e alle amministrative, e domenica 9 giugno per il secondo turno delle comunali, gli elettori che hanno deciso di andare a votare – il 56% alle europee, il 60% in media alle amministrative – hanno in larga parte premiato la Lega di Salvini.

Ma, a livello europeo, il successo dei sovranisti che molti temevano non c’è stato, o almeno non è stato tale da alterare profondamente i rapporti di forza all’interno del nuovo Parlamento europeo. Anche nella prossima Commissione gli equilibri non saranno drasticamente diversi da quelli dell’attuale, come invece avevano sperato dalle parti del governo italiano. Cambierà la maggioranza, dovrà necessariamente ampliarsi. E questo rischia di complicare ulteriormente i meccanismi già non perfettamente oliati di una Unione certamente affaticata. Ma se nelle istituzioni europee qualcosa cambierà per l’Italia sarà molto probabilmente che il nostro Paese non avrà posti rilevanti come quelli che ha attualmente, dove occupa la casella del presidente del Parlamento, quella del “ministro degli Esteri” europeo in Commissione, quella – sopra tutte – del capo della Banca centrale. Anche la prossima Commissione europea, dunque, manterrà molto probabilmente posizioni ortodosse rispetto alla tenuta dei conti pubblici e ai limiti fissati dal patto di stabilità e crescita stipulato nel 1997 dai Paesi membri: un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil (o, comunque, un debito pubblico tendente al rientro). Ed è con questa realtà che oggi ancora una volta, piaccia o meno, dobbiamo e dovremo confrontarci, mentre le stime di crescita continuano ad essere sconfortanti e si fatica a tenere il rapporto debito/Pil sotto al 133%.

Già nel novembre scorso, dopo l’approvazione da parte del governo italiano del Documento programmatico di bilancio per il 2019, la Commissione europea ci aveva presentato una relazione per inosservanza grave delle raccomandazioni del Consiglio, sostenendo che fosse giustificata una procedura per disavanzo eccessivo per mancato rispetto delle regole europee sul debito. Ci fu una trattativa, nella quale emerse la linea della ragionevolezza rappresentata dal “tecnico” Tria, che tentò, con successo, di riportare il dibattito all’interno dell’esecutivo dentro i confini dei numeri e non delle ipotesi; il governo approvò modifiche alla legge di bilancio e venne così scongiurata una prima volta una procedura di infrazione.

A distanza di sei mesi siamo punto e a capo. Da un lato l’azionista di maggioranza del governo, più forte che mai, spinge per estremizzare lo scontro con la Commissione: dall’altro l’alleato pentastallato, barcollante dopo la batosta elettorale, non sembra voler tenere una linea diversa. Mentre il premier Conte, che fin qui non ha certo brillato per autorevolezza e decisionismo, tenta di apparire come l’uomo delle istituzioni, affiancando l’azione del solito ministro dell’Economia.

 

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