Ci appendiamo al giorno 20. Non possiamo fare diversamente. Stare nella desolazione di questi giorni ferragostani, è proprio una contraddizione. Dobbiamo rivolgerci all’immediato futuro.

Sentendo il dibattito al Senato della Repubblica credo sia parso a tutti la ristrettezza intellettuale dominare la scena. Non uno che si elevasse dal coro. Tutti a far sollevare polvere e a lucidare le superfici. Né dai banchi dell’opposizione, né in quelli della maggioranza – opposizione e maggioranza che non si sa più quali siano – si è levata una voce degna di essere ricordata.

Siamo, quindi, costretti ad appenderci al 20. Al 20 di agosto.

Confidiamo che il Presidente del Consiglio dei Ministri, visto il ruolo, si stacchi dalla triste platea. Non ci vorrà molto per attuare questo proposito, ma, noi, abbiamo sete di costumi e ideali di portata meno prosaica possibile. Sperando che le comunicazioni di Giuseppe Conte sveglino le capacità sopite nel semiciclo di Palazzo Madama.

C’è bisogno di un linguaggio meno legato agli interessi immediati, di prospettive che non si arenino al primo angolo del futuro e a respiri etici tali da anestetizzare almeno il cattivo gusto imperante.

Mancano tre giorni, nel frattempo stiamo assistendo al gioco che mai ci saremmo attesi di una teatralità tra le parti davvero poco edificante: prima uno dà una sberla, l’altro annichilisce, un terzo risponde per le rime, il primo allora sembra scusarsi, una scena da vero teatro paesano. Un quarto appare sulla scena e, non appena apparso, si trova immediatamente all’angolo.

A novembre, si poteva accettare una compagnia teatrale di questo tipo, ma il 15 di agosto, ci saremmo attesi una spassosità che il regista, avendo questi attori, non ha potuto offrirci.