Ateismo e modernità

In un libro di Massimo Borghesi

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Roberto Righetto

Aveva ragione Henri De Lubac a parlare di «dramma dell’umanesimo ateo» quando, nel pieno della seconda guerra mondiale, individuava nell’ateismo moderno, quello sorto sulla scia di Feuerbach, Nietzsche e Comte, una nuova forma di ateismo, diverso da quello sgorgato ai tempi dell’Illuminismo che conservava molti dei valori di origine cristiana. L’ateismo nato fra Otto e Novecento invece aveva l’obiettivo di scardinare l’umanesimo cristiano e in quegli anni la sua espressione più manifesta era il neopaganesimo germanico sostenuto dal nazismo. Dinanzi a questo «ateismo postulatorio» (qui De Lubac riprendeva una felice formula di Scheler e Guardini), fondato sulla rivolta e sul risentimento, occorreva una nuova alleanza fra le forze liberali e cristiane all’insegna della migliore tradizione classica e cristiana, un’alleanza che ricomprendesse Socrate, Cartesio e «se occorre persino Voltaire, con la sua fine ironia». Non a caso lo stesso teologo e futuro cardinale in un’altra opera magistrale, L’alba incompiuta del Rinascimento, avrebbe poi indicato in Pico della Mirandola il primo vero protagonista dell’Umanesimo cristiano, vale a dire di un progetto culturale grandioso che sarebbe stato condiviso da numerosi altri intellettuali come Cusano, Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro ma che rimase in gran parte irrealizzato: la tendenza paganeggiante e materialistica, rappresentata da Bruno e Campanella, avrebbe prevalso segnando un conflitto della fede con la ragione. E purtroppo con quei valori come libertà, autonomia e pluralismo propri del cristianesimo ma spesso spenti e non riconosciuti dalle stesse Chiese, tanto che solo una grande rivoluzione laica, quella del 1789, li porrà alla base del mondo contemporaneo. Che i valori proclamati dalla Rivoluzione francese fossero essenzialmente cristiani è stato chiaramente riconosciuto da Paolo VI e Giovanni Paolo II. E anche dal cardinale Ratzinger nel discorso tenuto a Subiaco nell’aprile 2005, poco prima di diventare Papa: «L’Illuminismo è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo contro la sua natura era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato, è stato merito dell’Illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce».

È stata di recente la pensatrice franco-bulgara Julia Kristeva, davanti alle sfide del nichilismo contemporaneo, con i suoi due volti del fondamentalismo religioso e irrazionale, che dà vita a forme impazzite come il terrorismo suicida dei kamikaze islamisti da una parte, e quello del neopaganesimo fondato sul vuoto e sul nulla che caratterizza la società opulenta dell’Occidente dall’altra, a proporre un nuovo Illuminismo, che riallacci i fili spezzati con l’umanesimo cristiano. Ed è l’invito che emerge dall’ultimo lavoro filosofico di Massimo Borghesi, Ateismo e modernità, appena uscito da Jaca Book (Milano, 2019, pagine 250, euro 22). «Siamo di fronte a una spirale — scrive nelle conclusioni del saggio — che inverte quella della doppia modernità. Nel moderno, l’Illuminismo laico reagiva all’integralismo religioso; oggi, nel contesto post-moderno, l’integralismo religioso reagisce al laicismo positivistico. Dalla spirale si esce solo se religione e ragione si ripensano a partire da un confronto ideale fatto di unità e distinzione». E poi precisa: «Occorre un nuovo Illuminismo che sappia prendere sul serio la richiesta di senso che si esprime nella dimensione religiosa e, al contempo, una fede che accolga la richiesta di libertà che proviene dalle sue origini e che si documenta, criticamente, nell’ideale della modernità».

Docente di Filosofia morale all’Università di Perugia, dopo aver dato alle stampe una biografia intellettuale di Papa Bergoglio e un volume su Romano Guardini, Borghesi ridà voce al dibattito sull’ateismo sorto nel dopoguerra e che ha avuto come protagonisti, oltre al già citato De Lubac, figure come Jacques Maritain, Etienne Gilson, Cornelio Fabro e Augusto Del Noce. Come si vede, si tratta di alcuni fra i maggiori intellettuali cattolici del ‘900, tutti di area italiana o francese, che spesso ebbero fra loro un dialogo franco e acceso nel tentativo di delineare un nuovo spazio per il pensiero cristiano dopo il crollo del primo dei grandi totalitarismi, quello nazista, e davanti al secondo, allora ancora in vita, vale a dire il comunismo. Non solo: il cristianesimo a detta di questi pensatori doveva ridelinearsi accettando in toto le sfide della modernità e della post-modernità, come avrebbe fatto il concilio Vaticano II.

Divergono le posizioni sulle cause dell’ateismo, soprattutto tra Fabro e Del Noce, mentre quest’ultimo trova maggiore consonanza con Maritain e Gilson. Alle valutazioni dello studioso di Kierkegaard, secondo il quale tutto il pensiero moderno viene posto sotto l’ombra della negazione della trascendenza a partire dal cogito cartesiano, fa da contrappeso come noto l’analisi di Del Noce. Per lui Descartes è una sorta di «Giano bifronte — spiega Borghesi —, che porta tanto al razionalismo quanto al filone dell’ontologismo cristiano moderno di Malebranche-Vico-Rosmini. Con Del Noce lo sguardo si apre su un’altra modernità, sull’indirizzo franco-italiano della modernità, diverso da quello franco-tedesco, ignorato dal pensiero laico come da quello neoscolastico». Il pensiero cattolico almeno sino al concilio si è posto in radicale antitesi con la modernità denunciandone la deriva ateistica, ma in tal modo ha sottovalutato l’orizzonte storico che l’ha provocata. Attraverso la rilettura dei confronti filosofici di Fabro con Hegel e l’idealismo, di Gilson con Comte, di Maritain con Marx e via dicendo, Borghesi individua nella crisi interna al mondo cristiano segnata dalle guerre di religione che hanno infestato l’Europa fra Cinque e Seicento la molla che ha portato alla separazione tra fede e ragione: «Il conflitto politico-religioso è il vero atto di nascita del pensiero moderno. Il moderno non sorge come affermazione del regnum hominis contrapposto al medievale regnum Dei, ma come era tragica, di rottura dell’unità della respublica christiana europea. I termini vanno rovesciati. È l’ostinata lotta per il regnum Dei sulla terra che provoca la reazione, scettica o razionalista, che caratterizzerà poi la modernità laica». In un mondo in cui la fede non è più un terreno unanimemente riconosciuto ma qualcosa che divide, anzi che provoca lacerazioni e persino stragi, il pensiero laico finisce per affidarsi allo Stato per dirimere i conflitti. Come scrive Koselleck: «L’imperativo dell’epoca fu di trovare una soluzione tra le Chiese intolleranti che si combattevano aspramente e si perseguivano senza pietà. Come arrivare alla pace?». Per raggiungere questo obiettivo, da Locke a Hobbes a Voltaire, occorre passare attraverso la neutralizzazione della religione e delle fazioni. Si giungerà così però a un nuovo assolutismo, d’impronta politica e non più religiosa, ove anzi la religione è concepita come instrumentum regni. E al fallimento della via dell’Umanesimo cristiano corrisponderà un altro fallimento, quello della prospettiva laica che propugna il razionalismo e conduce al trionfo della ragion di Stato, finendo per schiacciare ogni impronta morale dell’anelito alla pace e alla fratellanza. È in questo clima che prende forma il moderno laicismo illuminista, in contrapposizione all’Ancien Régime. Sino all’avvento delle ideologie atee che hanno dominato il Novecento e che hanno determinato la catastrofe dell’umano. Alla fine della ricostruzione storico-filosofica di Borghesi, emerge una lettura del pensiero moderno come fenomeno a più facce, da non rigettare completamente da parte del cristianesimo. E pensando all’oggi la necessità di una nuova conciliazione fra il mondo della fede e quello della libertà. L’aveva suggerito anche Bobbio in un dialogo col cardinal Martini, allorché aveva invitato credenti e non a unirsi per combattere contro i pericoli della fede cieca e del non credere a nulla.