Articolo pubblicato sulle pagine di Agensir a firma di Stefano De Martis

La sconfitta di Trump negli Usa non segna la fine definitiva del populismo nei Paesi occidentali. Purtroppo hanno ragione gli analisti che invitano alla prudenza nel valutare le conseguenze del voto americano sotto questo profilo. Il populismo – nella forma legata al “sovranismo” che ha caratterizzato l’ultima reincarnazione di questo fenomeno – ha radici sociali profonde e la stessa pandemia, che pure ha contribuito in questi mesi a oscurarne la stella, potrebbe avere conseguenze imprevedibili nel medio periodo, soprattutto al di qua dell’Atlantico.
Il pervicace rifiuto di Trump di accettare il responso delle urne non solo getta un’ombra sulla transizione democratica in quel grande Paese, così decisivo per gli equilibri mondiali, ma è come la rappresentazione simbolica della resistenza del populismo in larghe fasce dell’opinione pubblica. Il presidente eletto Biden è il più votato di sempre nella storia americana e ha preso molti più voti popolari del suo avversario. È il sistema elettorale per Stati a ridimensionare lo scarto. Nel 2016 anche Hillary Clinton ottenne quasi tre milioni di voti più di Trump che tuttavia venne legittimamente eletto presidente in virtù delle regole elettorali in vigore.

Per i populisti il richiamo alla volontà popolare che supera ogni regola e rende lecita ogni decisione è una finzione ideologica.

Vale solo nella misura in cui è funzionale alle proprie ragioni. L’impatto che l’esito delle elezioni americane avrà sul resto del pianeta sarà comunque rilevante, tanto più nelle aree storicamente legate agli Usa. Per la politica italiana l’effetto più consistente riguarderà il posizionamento dei diversi partiti rispetto ai nuovi equilibri internazionali. Una dinamica destinata a sovrapporsi a quanto abbiamo già visto in rapporto all’Unione europea. Soltanto l’illusione sovranista, infatti, può lasciar pensare che ogni Paese possa fare da solo in un mondo in cui anche i giganti hanno bisogno di alleanze. Figuriamoci una realtà relativamente piccola come l’Italia. Bisognerebbe soltanto provare a pensare in che situazione ci troveremmo oggi dal punto di vista finanziario senza il sostegno dell’Europa. Altro che abbassare le tasse. E non è solo una questione di soldi.

L’attuale assetto politico del Paese, non a caso, nasce proprio intorno a quella che si potrebbe definire la discriminante europeista.L’alleanza tra M5S e Pd, che costituisce il fondamento del governo in carica, è stata di fatto resa possibile dal sofferto e non del tutto maturo passaggio dei cinquestelle alla maggioranza che ha consentito la nascita della nuova Commissione europea. Mentre FdI e soprattutto la Lega si sono ritrovati e tuttora si trovano praticamente in “fuorigioco”. Forza Italia – che invece ha solidi legami europei – è rimasta nel centro-destra soprattutto a livello locale, ma sul piano parlamentare e politico generale ha conservato una certa libertà di movimento, mostrandosi assai riluttante nel seguire le sortite estremiste dei suoi alleati e offrendo talvolta una sponda al governo in alcuni passaggi delicati.

 

 

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