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25 Aprile, l’appello dell’Associazione dei partigiani cristiani.

25 aprile 2024: mai avremmo pensato di celebrare gli 80 anni della Liberazione nel pieno di crisi internazionali di così grave pericolo per l’umanità. La guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, l’attentato terroristico a Israele del 7 ottobre, la guerra a Gaza e l’incendio scatenato nel Medio Oriente dall’Iran e dalle milizie ad esso collegate, hanno modificato gli assetti geopolitici e violato le Convenzioni di protezione umanitaria internazionale e stanno portando il mondo sull’orlo della catastrofe.

Anpc, fortemente ancorata ai diritti dei popoli ad avere una propria Patria e dei cittadini a non essere usati come scudi umani nei conflitti, ma titolari del diritto alla libertà e al riconoscimento della propria inviolabile dignità, festeggia una ricorrenza che tutti gli Italiani hanno l’obbligo di ricordare per riconoscere il successo della lotta di liberazione che ci ha conquistato una patria libera, indipendente, repubblicana.

La Resistenza ha fondato la Costituzione, baluardo di diritti e di doveri per una nazione capace di autodeterminarsi e dedicare la propria sovranità per ripudiare la guerra e ogni discriminazione.

L’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani è ancora qui e sempre ci sarà per continuare una battaglia pacifica a difesa dei valori della libertà e della democrazia e quindi contro ogni forma di razzismo, antisemitismo e apologia di regimi illiberali e criminali.

Esprimiamo solidarietà agli ebrei italiani e in particolare agli ebrei romani che continuano a essere offesi dopo le atrocità subite dal regime fascista delle leggi razziali.

La “Resistenza ora è sempre” è il manifesto di un impegno che non potrà mai venire meno e al quale educare le giovani generazioni che, lontane dai fatti storici, devono sentirsi protagoniste di un futuro costruito per dire mai più alla guerra.

Il 25 aprile 2024 è alla vigilia di una importante convocazione elettorale per eleggere il Parlamento europeo. I nostri martiri hanno combattuto e sognato patrie in pace in una Europa in pace: a loro forti del loro esempio e della loro eredità tocca il destino di essere non pacifisti ma operatori di pace.

L’appello a una forte partecipazione al voto potrà essere un importante messaggio a sostegno della Resistenza Ucraina contro nuove mire imperialistiche. Il popolo ucraino è l’avanposto per la difesa di tutti i liberi e democratici cittadini europei.

Come pure ANPC, sollecita ogni istanza – colpevolmente e per troppo tempo latitante – a costruire concrete vie pacifiche verso un assetto mediorientale che finalmente doni patria e Stato, sicuri, a Israele e Palestina

Il Pd tra Schlein e Prodi

Eta Beta è un personaggio dei fumetti che si esprime mettendo la lettera “p” davanti alle parole. Ha la capacità di fiutare i pericoli e di prevedere il futuro. Nel mondo dei cartoni, nei ballon, la nuvoletta dove sono scritti i pensieri dei personaggi, si legge di tanto in tanto un “pfui pfui”, un’espressione che indica disprezzo, scherno o derisione.

Tutto questo richiama il commento di Prodi all’annuncio di Elly Schlein di candidarsi alle prossime elezioni europee. Il Grande Vecchio del Pd ha detto con dispiacere o con irritazione che “non gli dà retta nessuno” aggiungendo che chiedere il voto, senza poi andare a scaldare effettivamente il seggio europeo, provoca ferite alla democrazia che scavano un fosso. 

Shemà Pd” è un grido caduto nel vuoto. Il suo popolo rischia di insabbiarsi nelle secche di una sconfitta dolorosa, forse buona per una eventuale futura purificazione. Così dicendo intuisce un futuro non roseo per il Pd e per la politica nazionale e, bofonchiando, è possibile gli sarà scappato anche qualche “pfui”, qui e là.

Della antica locuzione “(ar)recta aure”, stare cioè con l’orecchio drizzato, a noi è restato solo il “recta” ed è così che Prodi si lamenta di non avere ascolti e di girare a vuoto nella speranza di trovare qualcuno che gli dia seguito. 

“Cercare Maria per Roma” è una espressione che trova origine alla difficoltà di trovare l’icona della Madonna della Provvidenza nella Chiesa di Santa Maria in Grottapinta, nella zona di Campo de Fiori, vicino peraltro ai palazzi del potere della Capitale.

La Chiesa oggi sconsacrata e abbandonata è il simbolo del disagio di Prodi a non intercettare interlocutori che gli prestino attenzione. L’ex Premier forse è stato anche lui sconsacrato e abbandonato dai suoi antichi sostenitori.  Vedremo che accadrà.

Non è mancata poi la polemica se mettere o no il nome della Elly nel simbolo di partito. Alla fine la segretaria ha rinunciato. Con la raffinatezza che gli è propria, Cuperlo aveva fatto ricorso alla tecnica di una definizione residuale negativa: “Elly…tu non sei Giorgia Meloni, non sei Matteo Salvini, non sei Tajani, non sei Renzi, non sei Calenda…” Con ciò invitandola a non cadere nella tentazione di ammirarsi in grande e grosso sui manifesti elettorali.

Comunque, Elly ha dichiarato che con la sua personale scesa in campo intende “dare una mano con spirito di servizio. Mi candido a dare una spinta a questa meravigliosa squadra e a un progetto di cambiamento del Pd e del Paese”. 

Un po’ di anni fa al Festival dello Zecchino d’Oro girava una simpatica canzoncina che nelle prime strofe recitava: “Il caro nonno Asdrubale lasciò un’eredità, a noi toccò una macchina di sessant’anni fa. Un tipo di automobile che ridere può far, ma ridere per ridere papà ci volle andar. E dopo dieci, venti, trenta scoppi del motor, la gente tutta intorno gli gridava con calor: dai, dai, dai, dagli una spinta, dagli una spinta vedrai che partirà!”.

Vedremo se la potente macchina da guerra del Pd terrà la strada arrivando magari prima in dirittura di arrivo. Ma prima ancora, occorre che intanto si accenda, senza ingolfarsi già in partenza.

India al voto in un clima di crescente nazionalismo

È iniziata la maratona che in poco meno di due mesi condurrà quasi un miliardo di elettori al voto per il rinnovo della Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento indiano, che consta di 543 seggi. L’esercizio di democrazia elettorale più vasto del pianeta.

Eppure anche lì pare spirare un sottile vento autocratico, se – come tutto lascia prevedere – il Bharatiya janata party (Bjp) del primo ministro Narendra Modi vincerà con buon margine assicurandosi così altri cinque anni di potere.

Le critiche e le preoccupazioni si fondano su alcuni dati di fatto che si sono consolidati nel tempo nel corso dei dieci anni di governo del carismatico e popolare leader induista. Giorno dopo giorno, costantemente, è andato consolidandosi un senso di identità nazionale imperniato sull’induismo (nel quale si riconosce l’80% della popolazione) che ha progressivamente superato l’eredità britannica laico-occidentale ancora ben percepibile nei lunghi anni del gandhismo e del Partito del Congresso (dal padre della nazione Nehru fino a Sonia Gandhi passando per Indira Gandhi) per approdare a una sorta di integralismo religioso che favorisce tratti illiberali nella gestione politico-sociale del potere.

Del resto il nazionalismo indù è un po’ la cifra del governo Modi, che ha proprio in esso il fulcro del suo consenso. Il simbolo di questa influenza è forse stata, poche settimane fa, l’inaugurazione di un nuovo tempio indù edificato sul sito – in località Ayodhya, nello stato nord orientale dell’Uttar Pradesh, famoso per la presenza sul suo territorio del mitico Taj Mahal – ove estremisti indù nel 1992 demolirono una moschea. Le varie confessioni religiose sono sempre più chiaramente emarginate e combattute, in India. Ma la più avversata è quella musulmana, che è praticata da circa il 15% della popolazione ed è maggioritaria negli stati himalayani di Jammu e Kashmir, non per nulla zone in perenne tensione interna.

Ora il governo ha annunciato una nuova legge per la quale i fedeli di ogni religione tranne quella islamica potranno richiedere e ottenere la cittadinanza indiana se fuggiti dai paesi vicini a maggioranza musulmana (e per converso, anche se non è esplicitato, potrebbe accadere che i musulmani residenti nel paese possano venire deportati, quali immigrati illegali). Un ulteriore passo sulla via della radicalizzazione del potere indù, con la compressione degli spazi per chi appartiene alle minoranze, religiose e laiche.

Per quanto riguarda l’economia, invece, ovviamente uno dei temi più importanti in una campagna elettorale, la situazione è discreta, ma non esaltante. Sono ancora milioni i giovani disoccupati e i tassi di crescita roboanti, a due cifre, promessi dal Bjp sin dal 2014 non si sono mai concretizzati, anche se occorre riconoscere che negli ultimi anni l’India è comunque cresciuta più delle altre grandi nazioni con le quali ormai desidera confrontarsi, e non solo in ragione della sua enorme dimensione in termini di popolazione. La crescita avrebbe potuto essere maggiore – sostengono i critici del governo – se si fosse lasciato più spazio alla concorrenza internazionale invece di proteggere dalla medesima i grandi conglomerati nazionali, perdendo così opportunità di investimenti, soprattutto nella manifattura, che avrebbero potuto generare nuova occupazione. Ma al di là di queste giuste osservazioni l’opposizione, fragile e divisa, non ha saputo creare o individuare una reale alternativa a Modi.

L’India è destinata a divenire uno dei principali player mondiali e a tal fine Modi si è mosso con qualche ambiguità nel complicato ginepraio della nuova geopolitica. Anche qui la bussola è il nazionalismo, gli interessi dell’India prima di tutto. Le alleanze sono plurime e a rischio di contraddizione. Così quella con gli Stati Uniti viene confermata e allargata attraverso il QUAD, accordo che include anche Giappone e Australia e che è finalizzato a contrastare militarmente la crescente volontà di dominio sul Pacifico da parte della Cina.

Al tempo stesso vengono confermati i buoni rapporti con la Russia, dalla quale acquista petrolio e gas a prezzi divenuti più convenienti in seguito alla guerra in Ucraina e alle conseguenti sanzioni occidentali nei confronti di Mosca. Non solo. 

L’India è partecipe del BRICS, ora BRICS+, l’alleanza del Sud Globale, come viene definita. Qualcosa che si muove in un ambito sostanzialmente anti-occidentale. Ove la Cina punta a esercitare un ruolo preminente. Quella stessa Cina che storicamente è un avversario continentale dell’India. L’ambizione di Modi è di rappresentare in questo forum l’alternativa alla Cina o quantomeno il suo contrappeso. Un punto di contatto per l’occidente, probabilmente. Ma soprattutto l’obiettivo di Modi – se il suo partito vincerà le elezioni, come previsto – è di porre l’India al centro di un sistema di relazioni internazionali diversificate dal quale ottenere il massimo rendimento possibile.

Dobbiamo interrogarci sul lento declino dell’Occidente

Lo scorrere del tempo nasconde mutamenti e trasformazioni che percepiamo nella loro dimensione globale ma anche attraverso i segni che leggiamo nelle piccole cose. Ci sono – in questa epoca travagliata e sempre minacciata dall’incipiente pericolo del baratro – guerre devastanti e genocidi che coinvolgono gli Stati e i popoli, le etnie, le culture, le religioni: non c’è limite al peggio nè spazio per una civile resipiscenza. Sono fatti che ci raccontano l’inquietudine umana, la bramosia del potere, l’assenza della memoria, i pericoli del fondamentalismo, la messa al bando di ogni limite: è una minaccia continua che si espande a macchia d’olio e dimostra quanto sia insieme crudele e stupido il genere umano. 

Le buone notizie non si trovano più neanche nel mercatino dell’usato, mi aveva detto Maurizio Belpietro, e se da qualche parte narrano una dimensione umana che semina gesti di bontà e desiderio di pace, restano occultate nella vorticosa e mistificante narrazione dei social media. Ci sono anche- dicevo – segni che intercettiamo nella quotidianità e durano un battito di ciglia ma – sedimentandosi e ripetendosi – finiscono per lasciare traccia. Gli uni e gli altri fenomeni – quelli grandi e incontenibili come le guerre, i conflitti, la sostenibilità ambientale e quelli dentro o poco oltre l’uscio di casa – ci dicono che il mondo sta cambiando: tempora mutantur et nos mutamur in illis. 

La Storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata da un ora lento ora accelerato processo di trasformazione. Leggendo e recensendo in questi giorni un saggio di Giuseppe De Rita sul concetto di sviluppo legato all’autopropulsione sociale, ho radicato il convincimento che i cambiamenti intorno a noi non sempre si sostanziano nell’idea di progresso. Ci sono state epoche talmente caratterizzate da radicamenti culturali identitari da esserne denominati: pensiamo al Rinascimento, all’Illuminismo, al Romanticismo. L’avvento del dominio tecnologico ha impresso una forte dinamica evolutiva che non siamo riusciti a connotare oltre il concetto di complessità: rileggere Heidegger, Habermas, Benjamin e Bauman. Trovo che da alcuni decenni si sia acuìto il tema della sostenibilità generazionale, in ambito culturale, nel contesto lavorativo, nella comunicazione e nelle relazioni umane. 

La democrazia resta una chimera inagibile, il relativismo etico e culturale la sovvertono e la mettono continuamente in discussione. Siamo circondati da feticci che diventano orpelli e luoghi comuni: privacy e trasparenza anziché emancipare, facilitare e semplificare mettono le manette ai polsi delle relazioni umane. Si parla tanto ma non ci si comprende, il soggettivismo radicato nei comportamenti umani – ammantato da nobili ideali come la libertà di espressione e la dignità del singolo crea situazioni di incomprensione e monadi vaganti e incomunicabili. Ci si affida allora ai luoghi comuni, alle opinioni degli influencer, alle derive miste tra minimalismo e nichilismo, delirio parossistico, effetti speciali e rigurgiti di volontà di potenza. La conflittualità sociale dilagante ne è prova tangibile.

Paradossalmente le culture tradizionali si conservano nei contesti istituzionali e sociali delle tirannie e delle dittature. Ancor più eclatante il fatto che ciò avvenga laddove il fondamentalismo religioso si mescola alla secolarizzazione delle sue regole: si taglia la testa alle donne che non indossano il velo, si lapidano quelle che hanno abbassato il copricapo mostrando gli occhi. Incredibile che l’Occidente che fa una bandiera dell’emancipazione femminile si presti ad essere così benevolo e indulgente verso coloro che trovano accoglienza e rivendicano diritti umani senza accettare le regole che la tradizione culturale del Paese che li ospita impone. 

Dobbiamo fare quadrato attorno alle nostre democrazie, come mi ha detto Vittorio E. Parsi “la difesa della democrazia domestica passa attraverso la leadership delle democrazie nel mondo”. È in atto da anni in Occidente una deriva minimalista (v. cancel culture), ciò che non accade dove le tradizioni e le radici identitarie sono inamovibili e rafforzano la sedimentazione del potere. In Russia il Patriarca Kirill parla di guerra santa in nome della nazione, da noi Papa Francesco si rivolge al mondo intero e invoca la pace universale: non sono la stessa cosa. Lo stesso dicasi per ciò che predica l’islamismo: shari’a, fondamentalismo, sottomissione della donna, distruzione di tutto ciò che l’occidente rappresenta.  

Nel caravanserraglio sociale in cui viviamo c’è di tutto e di più: salvaguardare le identità nazionali, conservare e custodire la cultura tramandata sono diventati peccati di lesa maestà. Non credo che scegliere la democrazia come modello di convivenza sociale imponga di assumere una sorta di ‘pensiero debole’ e acefalo, egualitario, rinunciando ai valori ereditati. 

Eppure da tempo stiamo rinunciando alla nostra identità e rinneghiamo la storia, i valori fondativi dell’essere italiani o europei, in nome di un’intercultura che non esiste perché troppo profonde sono adesso le radici che ci caratterizzano. Dio, Patria e famiglia hanno costruito un modello sociale perfettibile e con declinazioni magari non condivisibili e forse ora obsolete ma la loro rimozione in tutti i gangli e i meandri del vivere sociale non è stata sostituita da riferimenti più convincenti. Non erano e non sono una bestemmia.  

Il pensiero debole dilaga e non dobbiamo confondere il senso di appartenenza all’idea di un ‘continuismo’ identitario (come lo chiamerebbe De Rita) con le derive negative dei nazionalismi e dei populismi. In una società aperta c’è spazio per l’inclusione, la convivenza pacifica, il dialogo: ma sempre nel rispetto delle regole.

In questi giorni Sunak ha stabilito che gli stranieri per abitare nel Regno Unito devono possedere un reddito di 45 mila euro, noi non siamo arrivati a tanto ma ad esempio le banlieue francesi sono un grattacapo non da poco per Macron: un mix etnico ormai radicato e potenzialmente esplosivo. Ora, ascoltare in TV che la statua di Vera Amodeo dedicata alla maternità (una donna che allatta un neonato) non trova né pace di critica né sistemazione logistica in una via o piazza di Milano, perché giudicata anacronistica e non espressione di valori universalmente condivisi, lascia di stucco. È una delle tante negazioni che stanno smantellando pezzo a pezzo la nostra Storia e la nostra cultura mentre hanno ancora diritto di cittadinanza in tutto il pianeta. Ci sono Paesi modelli di democrazia dove queste cose non succedono: tutto il mondo ci guarda e ride delle nostre stupide malinconie, dei nostri crucci, delle nostre remore, del nostro – mi sia consentito – paraculismo salottiero.  

Così come la vicenda dei presepi che “offenderebbero” le altrui sensibilità, le scuole chiuse nei giorni del Ramadan, la rimozione dei Crocifissi dalle aule. Ha fatto bene Valditara a mettere paletti che spettano a un Ministro. Chi visita un Paese del Nord Africa non riceve uguale trattamento: perché allora il pensiero debole, quel senso di colpa atavica di essere gli eredi di una civiltà che ha espresso valori positivi si insinuano nel pensiero condiviso fino a dover chiedere scusa e vergognarci di ciò che siamo e siamo stati?

Non esiste una civiltà senza radici: tutte vanno rispettate ma questa dilagante abdicazione ai nostri riferimenti culturali e identitari può portare solo ad una società amorfa e defedata. Aspettiamo ora l’intelligenza artificiale per rimuovere il resto che rimane.

Schlein candidata, Prodi dice no e Borghi alza il tiro.

È stata la condanna di Prodi a suscitare maggiore scalpore. In via di principio, secondo il Professore, la candidatura alle europee deve corrispondere a un preciso impegno, essendo un gesto inammissibile entrare in lista con la prospettiva di una rinuncia subito dopo all’esercizio del mandato. Anche Elly Schlein, dunque, ha ceduto alle lusinghe di un leaderismo che mette a dura prova la trasparenza e la qualità della proposta politica. La conclusione è semplice, anche al di là della reazione prodiana: a sinistra, dove poggia il baricentro dell’opposizione, si consuma una manovra di deteriore opportunismo.    

C’è però da osservare che il vulnus alla democrazia – perché di questo si tratta in ragione dell’inganno verso gli elettori – va di pari passo con l’ennesima torsione del profilo identitario del Partito democratico. È stato Enrico Borghi, capogruppo di Italia Viva al Senato, a mettere in rilievo il carattere politicamente scorretto di una decisione che  fuoriesce dal canone della battaglia, senza se e senza ma, contro la destra populista e autoritaria. Il motivo è presto detto.    

“Non so se le teste d’uovo del Nazareno – ha scritto Borghi sui social – lo abbiano realizzato, ma la decisione di mettere il nome di Schlein nel simbolo e sulla scheda elettorale sposa nei fatti l`idea dell’elezione diretta del premier, e archivia di un botto tutta la retorica sulla deriva bonapartista del premierato. Perché se mette il suo nome per elezioni europee (dove ha già annunciato di desistere dall’elezione), Elly Schlein non potrà che confermare questa impostazione alle prossime elezioni politiche. E quindi come la mettiamo con la melassa sulla deriva antidemocratica del premierato? O forse, ora che sta realizzando il nuovo PDS (Partito di Schlein), Elly recupera il programma istituzionale del PDS originale e della tesi numero 1 dell`Ulivo? In ogni caso portate i sali alla sinistra Dem, e gli ex di Articolo 1, che pensavano di tornare alla Ditta e si ritrovano nel wokismo individualista”.

Dunque, l’appello a una dialettica – Schlein vs Meloni – fortemente radicalizzata, con la conseguente riduzione di spazio per i partiti intermedi, avanza nelle nebbie dell’ambivalenza. Arriva a un punto in cui lo scontro non è più sul “modello” di democrazia, bensì su chi e come lo gestisce, quel modello; come quando, per l’appunto, si punta ad assumere l’identifica postura leaderistica in funzione dell’alternativa (di potere). 

Ecco spiegata allora la diffidenza di una vasta area dell’elettorato, priva al momento di adeguata rappresentanza: il gioco degli specchi tra sinistra e destra non convince perché ripropone l’immagine di una scambievole applicazione “ad usum Delphini” della democrazia. In definitiva l’antagonismo riguarda le persone, non il metodo. E questo, per molti, non va bene.

La contesa sull’antifascismo di Scurati rivela la crisi della Rai

La polemica innescata dalla sinistra e dai populisti sul breve ma durissimo comizio di Antonio Scurati non trasmesso dalla Rai – ma comunque letto in diretta dalla conduttrice del programma – contro Giorgia Meloni arriva puntuale come le stagioni meteorologiche. Del resto, il 25 aprile si avvicina e, come da copione, va radicalizzato il dibattito politico sul possibile “ritorno del regime”, sul fascismo ormai alle porte, sulla inesorabile restrizione di tutte le libertà democratiche e via scioccheggiando.

Ora, al di là di queste baggianate e con la speranza che arrivi al più presto il 26 aprile per ritornare semplicemente alla realtà, alcune cose vanno pur dette. Certo, chi legge la Stampa di Torino o la Repubblica in questi ultimi giorni – cioè i quotidiani più scatenati e più faziosi contro Giorgia Meloni e il centro destra – sembra di essere veramente alla vigilia di una ormai inesorabile svolta autoritaria dove l’unica possibilità di sopravvivenza per i sinceri democratici come noi è quella di scappare al più presto in montagna per iniziare la battaglia contro l’invasore. Ma, ripeto, è tutto un copione che finirà, come sempre, il 26 aprile.

Detto questo e dando per scontato l’ennesimo dibattito surreale e del tutto virtuale, torniamo al documento di Scurati – che ormai tutti conosciamo – per fissare alcuni brevi paletti.

Innanzitutto il documento andava letto in Rai dall’autore e senza alcuna polemica. Certo, al di là della sottolineatura e del richiamo di alcuni fatti storici ormai noti a tutta Italia, si tratta di un piccolo e violento comizio politico lanciato frontalmente contro Giorgia Meloni. E sin qui tutto normale e persin scontato.

In secondo luogo, e come sempre, la furbizia e la rapidità di movimento di Giorgia Meloni ancora una volta hanno breccia. E cioè, pubblicando il documento di Scurati sulla sua pagina Fb a conferma che non si deve nascondere nulla. Anche i comizi politici più settari e più faziosi.

In terzo luogo, essendo cambiati in profondità la qualità e la funzione del servizio pubblico radiotelevisivo, oggi la salvaguardia del pluralismo significa semplicemente la garanzia della faziosità politica. E il documento di Scurati rientra perfettamente e quasi ontologicamente in questa classificazione. Si tratta, cioè, di un piccolo manuale utile per tutti i militanti della sinistra in vista delle manifestazioni del 25 aprile contro Giorgia Meloni e il suo Governo.

In ultimo, ma non per ordine di importanza, una corretta ed oggettiva lettura e ricostruzione del passato non può essere sempre confusa ed impastata con una irriducibile e strutturale faziosità politica e culturale. Un solo esempio e confronto con il passato della Rai, certo non paragonabile con gli attori, i giornalisti e e gli artisti contemporanei a conferma di questo assunto. E cioè, la “notte della Repubblica”, uno dei tanti capolavori televisivi del “gigante” e “maestro” Sergio Zavoli, è mai stato sfiorato da una polemica faziosa o settaria o partigiana del programma sotto il profilo politico e culturale? Per non parlare di moltissimi altri programmi televisivi di approfondimento politico, culturale e sociale. 

È ancora possibile far sì che una corretta, oggettiva – per quel che è possibile – e trasparente informazione del servizio pubblico radiotelevisivo italiano non sconfini sistematicamente nell’attacco personale, nella faziosità politica più becera e nella demolizione sistematica di tutto ciò che non rientra nella ideologia del “politicamente corretto”?

Questa era, e resta, la vera sfida del futuro della Rai, del suo pluralismo, della sua imparzialità e, soprattutto, della sua professionalità e del suo ruolo nella società italiana. Se il tutto si limita al business, ai contratti milionari, alla faziosità permanente e al settarismo più sfacciato, tanto vale privatizzarla e chiudere definitivamente una pagina, seppur gloriosa e nobile, della storia italiana ed europea legati all’informazione, alla cultura, alla storia e al giornalismo.

L’equivalenza dei sessi scombina l’antropologia

Sylviane Agacinski

 

[…] Lévi-Strauss osserva che, in numerose società, i legami naturali possono sussistere e coesistere con le relazioni di filiazione istituite. Fornisce diversi esempi di casi in cui lo statuto sociale di un figlio si determina in funzione del padre legale, ma aggiunge che «il bambino conosce comunque l’identità del suo genitore biologico ed esistono legami affettivi che li uniscono». Contrariamente alle nostre, quelle società ignorano l’angosciosa alternativa tra legami naturali e legami sociali. Invece di drammatizzare l’opposizione, esse giustappongono i due tipi di legami, ma in modo trasparente, e la trasparenza sembra loro essenziale.

Ci si può allora chiedere se non sarebbe più saggio anche per noi accogliere tale trasparenza, anche in materia di procreazione assistita. Essa permetterebbe, infatti, di ripersonalizzare i legami tra ascendenti e discendenti, evitando al tempo stesso la spersonalizzazione degli ascendenti e la desessualizzazione della procreazione. Vediamo bene infatti che, ad esempio, l’inseminazione anonima, usata da una donna sola o da una coppia di donne, fa completamente sparire la parte dell’altro sesso nella nascita di un figlio. Crea la finzione di un atto generativo monosessuato, che non è verosimile. Possiamo chiederci in nome di cosa e di chi una società possa imporre a un bambino la finzione di una nascita desessualizzata, che rischia inoltre di compromettere la costruzione della sua identità sessuata. La stessa questione si pone per stabilire la parentela. Istituire due genitori dello stesso sesso significa rompere con il modello strutturale dissimmetrico dei legami biologici, che si mantiene anche in laboratorio. L’istituzione della parentela deve forse abbandonare ogni rapporto, sia pure analogico, con l’ordine reale della generazione sessuata degli esseri umani?

La legittimità dei legami omosessuali non è in discussione. È riconosciuta dalle unioni civili in Francia e in altri Paesi. Potrebbe essere rafforzata da un matrimonio civile, se il significato di tale istituzione venisse cambiato. Ma il desiderio individuale di unirsi civilmente, di stipulare un contratto coniugale con una persona dello stesso sesso, giustifica il progetto di scartare l’altro sesso dalla procreazione e dalla filiazione dei bambini? Giustifica una ricostruzione della parentela basata sull’equivalenza dei sessi? Questo meriterebbe almeno di essere oggetto di riflessione e di dibattito, tanto più che una tale ricostruzione creerebbe una disuguaglianza tra i figli futuri, compresi i figli adottati: gli uni, iscritti in una filiazione bilaterale non simmetrica, con una madre e un padre; gli altri, privi sia di un padre sia di una madre.

Il problema dei bambini a venire, cioè delle future generazioni, è che nessuno li rappresenta sulla scena politica democratica: non possono manifestare, né essere ricevuti né essere ascoltati. Non costituiscono alcuna forza. Il legislatore deve però preoccuparsi delle condizioni della loro venuta. Ed è per questo che, prima di prendere decisioni precipitose in materia di procreazione e di parentela, egli dovrebbe svolgere una riflessione antropologica ed etica, approfondita e condivisa, sullo statuto dei figli, sui loro diritti e sulla nostra responsabilità nei loro confronti.

(Traduzione di Mario Porro)

 

Sylviane Agacinski

Sylviane Agacinski è una scrittrice, giornalista e filosofa francese. Negli anni Settanta ha partecipato alla fondazione del Collège international de philosophie, al fianco di Jacques Derrida. Ha scritto numerosi libri, incentrati soprattutto sul rapporto fra i sessi.

 

Per leggere il testo integrale

https://rivista.vitaepensiero.it//news-vp-plus-la-metamorfosi-della-differenza-sessuale-6484.html

Quale futuro per Roma? Riflessioni alla vigilia del Giubileo.

La città eterna ha una molteplice e straordinaria pluralità di valenze interconnesse: possiede un valore per l’umanità religiosa, ma è anche una delle principali capitali europee ed un centro di riferimento anche  per tutti i paesi del bacino del Mediterraneo In un momento emergenziale come l’attuale assume pertanto un ruolo fondamentale per realizzare una cooperazione autentica tra energie culturali, politiche ed umane in grado di contribuire a realizzare un percorso di pace e di convivenza armonica e democratica.

Sede di numerose strutture accademiche e di ricerche, Roma possiede un ricco tessuto di realtà produttive e tecnologiche di sicuro spessore. La “cittadinanza globale”, come si usa dire oggi, è composta da una comunità di “utenti”, anche solo temporalmente presenti sul territorio di Roma, che hanno diritto a prestazioni pubbliche di livello, erogati come nelle altre capitali, in prospettiva di un accoglienza responsabile. Non si tratta di due “missioni” in competizione, essendo in realtà  sinergiche, che richiedono servizi funzionali e fortemente coincidenti.

In particolare, l’attuale assetto delle autonomie locali sul nostro territorio, con la Città metropolitiana e Roma Capitale, dovrebbe essere maggiormente focalizzato sui bisogni di una città di rilievo non solo nazionale, in quanto capitale, ma al tempo stesso di valenza mondiale. Le funzioni e le risorse attribuite a queste strutture, ad esempio, dovrebbero consentire di riconoscere la specificità della città e del suo territorio metropolitano, per ribadire la centralità politica e la cifra universale che viene riconosciuta a Roma da un punto di vista artistico, religioso e culturale.

Si tratta di prendere atto della complessità di governo, ma anche amministrativa e strutturale, che segue alla vocazione internazionale di Roma. Occorre una vera autonomia e a ciò si aggiunge  che l’attuale modello di governo locale del nostro territorio, di per sé messo alla prova delle nuove emergenze di mobilità, risulta indebolito dalla circostanza che le previsioni della legge n.42 del 2009 in materia  di federalismo fiscale proprio per lo sviluppo di Roma Capitale, necessita di un’ulteriore accellerazione allo scopo di reperire le necessarie risorse finanziarie

Serve quindi  un cambio di prospettiva che sviluppi un progetto alternativo per poter attribuire alla città di Roma, mediante i suoi enti territoriali, i poteri e le funzioni che consentano il vero esercizio di un autonomia amministrativa, così da poter  affrontare le grandi emergenze lasciate senza risposta. Certamente la fonte giuridica indicata nella legge di attuazione dell’art. 114 cost., comma 3, sembra andare in questa direzione offrendo sul piano giuridico e specialmente tecnico un utile spazio per l’adozione di un vero “progetto-Roma” per i prossimi anni.

Una calibrata riflessione ci porta verso una sollecitazione al riconoscimento di “Roma Capitale” attraverso una speciale autonomia che del resto appare presente nella carta costituzionale nell’art.116 e in conformità, appunto, alla legge n.42 del 2009 in materia di federalismo fiscale. Le attività inerenti a un vero rilancio della città  devono superare le più delicate criticità per dare consistenza alla visione di una città moderna in grado di competere con le altre capitali europee.

Si potrebbe pensare ad un “master plan” aggiornato ogni anno per poter indicare gli obiettivi, le risorse e i soggetti, verificando i progressi compiuti ed individuando gli aggiustamenti necessari da compiere. Sarebbe uno strumento utile per tutte le interlocuzioni istituzionali, razionalizzando le localizzazioni e le interazioni decisive con le grandi imprese pubbliche che hanno la loro sede a Roma, superando l’aleatorialità dei tempi; come pure ciò varrebbe per le infrastruttire che escono da un periodo pandemico emergenziale, sovraccariche di rinnovate esigenze da parte dei cittadini, ad esempio in ordine a edifici scolastici, strutture universitarie ed ospedaliere.

Occorre superare gli ostacoli che frenano i processi prtecipativi miranti alla concertazione tra i diversi soggetti, pubblici e privati. Proprio la fase postpandemica può essere una grande occasione per interventi integrati a vantaggio delle periferie, laddove si sono venuti configurando negli ultimi tempi agglomerati legati a un pendolarismo verso il centro, con ulteriori aggravamenti del problema della mobilità. Per questo sarà decisivo l’aggiornamento di strumenti urbanistici per la delocalizzazione delle strutture centrali e periferiche dello stato (e del comune stesso) per liberare nuovi spazi verde, in una logica di urbanizzazione integrata, includendo scuole, servizi e spazi di socializzazione.

Fondamentale, in prospettiva dell’imminente Giubileo, sembra essere il rilancio della vocazione internazionale della città. In questo senso sarebbe utile la creazione di un ufficio per la promozione culturale di Roma nel mondo. Del resto, le università statali o private, pontificie o internazionali che hanno sede a Roma vantano una tradizione consolidata e un patrimonio di conoscenze che potrebbero attrarre studiosi da tutto il mondo, con ricadute positive sul tessuto metropolitano e regionale.

Nuove opportunità di sviluppo possono contribuire a rafforzare le reti di solidarietà verso le persone più isolate o fragili; e in ciò può rivelarsi efficace anche il ruolo delle parrocchie, delle organizzazioni di volontariato, degli enti del terzo settore.

Proprio per venire incontro ad un ordinamento nuovo della capitale si potrebbe prendere in considerazione la costituzione di un centro studi sulla promozione sociale, riunificando e mettendo a confronto le esperienze di fondazioni, associazioni e – perché no – strutture amministrative che operano nella città, per arrivare a competenze mirate allo sviluppo urbanistico armonico, realizzando così una sinergia tra innovazione e sostenibilità: una sorta di “innovability”.

Roma ormai da tempo patisce il deterioramento dei parametri relativi alle condizioni di benessere economico e alla qualità delle relazioni sociali, con un invecchiamento progressivo della popolazione, la contrazione della capacità di acquisto da parte dei redditi da lavoro e il disagio abitativo, soprattutto nelle periferie. Insomma, c’è urgenza di immaginare e costruire una risposta strutturale alle “sofferenze” che si addensano in ogni segmento sociale.

Roma quindi non potrà ignorare le competenze tecnico scientifiche delle istituzioni universitarie e degli enti di ricerca per organizzare una più moderna e proficua gestione del territorio metropolitano e delle sue risorse. In ciò appare faconda l’iniziativa delle università romane di costituire un associazione, recentemente formatasi sotto la sigla di AURORA (Alleanza tra le università romane per la ricerca applicata), per innervare l’azione dei pubblici poteri in questa opera necessaria di rilancio e promozione della Capitale. Esiste un giacimento di risorse culturali e tecniche, spesso celate, da cui ricavare un impulso straordinario per un’equilibrata politica di modernizzazione.

 

Prof. Giulio Alfano

Presidente dell’Istituto “Emmanuel Mounier”

Scurati, aborto e strilli: una società dal pensiero in gola?

C’è come sempre qualcosa che non va soprattutto in tempo di elezioni. Si alza una canizza sulla presunta censura di Scurati con il suo testo antifascista. Si sarebbe oscurata la democrazia sulla quale è caduta la scure del potere. Così protesta una parte, mentre l’altra parte replica con motivazioni di onere economico per la RAI. Intanto la Giorgia nazionale ha pubblicato lei il testo frutto di contestazione. 

Altra diatriba è a difesa del diritto dell’aborto, minacciato da un emendamento al decreto “Pnrr–quater” che, per come si teme e si comprende, vorrebbe far entrare nei consultori, associazioni anche di stampo antiabortista. C’è chi lancia un allarme per l’aggressione al diritto di aborto e chi invece rivendica che la legge debba essere applicata nella sua interezza. L’emendamento è a firma del deputato Malagola che per molti avrebbe fatto bene a ricacciarsi nelle fauci il pensiero che, sempre secondo alcuni, ha maldestramente tradotto in atto parlamentare perché approvato ed inserito nel disegno di legge all’articolo 44–quinquies.

Mala tempora currunt sed peiora parantur. Se si continua così andremo sempre peggio.

La legge 194 stabilisce che in caso di gravidanza una donna può essere assistita da consultori familiari che attuano direttamente o indirettamente speciali interventi quando la gravidanza o maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi. I consultori “possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la gravidanza”.

Da qui dibattiti a tutto spiano su chi sia idoneo e chi meno, chi sia intruso o chi no in una vicenda che ha comunque il tenore di un dramma. È questo un tema che non richiederebbe infatti neanche un rigo di scrittura. Il fatto che se ne parli e si commenti e si scriva al riguardo è un segno di grave sconcerto.

Si invoca con allarmi di strada la tutela di un diritto delle donne pronte alla barricata se qualcuno volesse immaginare di mettere i bastoni tra le ruote alla applicazione di una legge dello Stato.

Giungono persino bacchettate dalla Francia e dalla Spagna per il pericolo di una eventuale inversione di tendenza in ordine alla possibilità di non portare avanti una gravidanza. Ci è andato di mezzo anche Bruno Vespa che non ha trovato testimonianze femminili sul tema durante il suo “Porta a Porta”.

Su questo tema si registra un approccio ideologico che rende deprimente ogni discussione. C’è chi è a favore e chi contro e ciascuno, come è giusto, difende il suo pensiero.  La logica dello scontro è il macroscopico difetto di cecità delle parti in causa. Così la contrapposizione si carica di un livore e di una forza che perde di vista la tragedia del fatto, che perde di ogni rilevanza, prevalendo solo il desiderio di affermare la propria ragione.

Non sembra che esista al mondo una donna che abbia vissuto quella esperienza e che possa aver interrotto la gravidanza a cuor leggero. È una piaga che si porta appresso probabilmente per sempre e che richiederebbe una assistenza assoluta dello Stato per curare il dolore che ti accompagna, non solo nella memoria, nel corso degli anni di vita. 

È sempre lo Stato che concretamente potrebbe offrire l’occasione di un ripensamento sulla scelta di abortire, almeno lì dove si trattasse di dover affrontare una maternità in condizioni economiche impossibili, magari offrendo un ingresso al lavoro con quote riservate a chi non disponga di mezzi per sostenersi.

È lo Stato che deve assumersi le sue responsabilità e dare in un caso o in un altro un sostegno vero alle donne di fronte alla scelta di abortire. Stiamo parlando di una esperienza che lascia segni profondi in chi la vive e che non può essere oltraggiata, riducendola ad una avvilente rissa barricadera tra diritti e doveri.

In questi giorni una donna, Azzurra Carnelos, è morta avendo interrotto le cure chemioterapiche per non pregiudicare il prossimo parto del figlio che aveva in grembo. Il marito racconta che Azzurra stringeva i denti e sorrideva. E nato il bambino ma il cancro si è tolto la sua soddisfazione, uccidendola. Azzurra forse un giorno sarà proclamata santa, comunque resterà un esempio di dedizione di generosità e di amore.

A nessuna donna si può chiedere il sacrificio della propria vita per darne alla luce un’altra. Neppure si possono chiedere atti di eroismo diventando mamme quando nessuno alza un dito per darti una mano o se non ti senti pronta per un passo così impegnativo.

Azzurra insegna a tutti che il baccano dei diritti e dei doveri è comunque un modo distorto di approcciare il tema della maternità e le sue conseguenze. Allo Stato si deve chiedere molto di più, pretendere una assistenza vera, per tutto il tempo che occorre, che si scelga in un modo o nell’altro, per la vita o per l’aborto. Di questo non sembra invece levarsi alcuna voce.

A proposito del libro «La sinistra sociale» di Giorgio Merlo

Talvolta le riflessioni conclusive di un percorso mentale e di vita si rivelano essere in realtà (in qualche caso troppo tardi) la necessaria premessa, addirittura l’obiettivo sino ad allora nascosto. Scriveva per esempio Carlo Donat-Cattin: «Senza il recupero civile di vessilli morali e trascinanti (…) costruiremmo ogni giorno un fantasma nel vuoto».

Parole che il leader della corrente della Democrazia Cristiana “Forze Nuove” espresse in occasione di un libro intervista del 1980, intitolato “La mia Dc”. A ricordarle è in questo caso Giorgio Merlo, suo libro “La sinistra sociale” (Marcianum, Venezia, pagine 224, curo 19), che include anche una prefazione dell’arcivescovo Vincenzo Paglia.

Fantasmi, dunque. La dimensione dell’impalpabile parrebbe, in effetti, quella che meglio si addice al dibattito sull’impegno dei cattolici in politica, tanto in riferimento alle proposte per il futuro quanto all’effettiva capacita di incidere di questi ultimi, a partire dalla fine della Democrazia Cristiana fino nostri giorni.

Eppure, scrive il presule nelle pagine iniziali del libro, oggi, quando ci troviamo «in un passaggio della storia analogo a quello del dopoguerrа», le condizioni per una nuova presenza dei cattolici in politica, ci sarebbero. A patto di riscoprire e di valorizzare, sostiene

Merlo, gia deputato del Partito Democratico e attualmente sindaco di Pragelato (TO) l’esperienza della “sinistra sociale” di ispirazione cristiana, di cui l’autore del libro ripercorre la storia anche attraverso l’azione dei suoi esponenti, dal già citato Do-nat-Cattin a Franco Marini, passando per Guido Bodrato , Sandro Fontana, Ermanno Gorrieri. Un’azione inquadrata a sua volta in un contesto storico particolare, che non ne fa però una semplice vestigia del passato ma anzi un modello da recuperare, per ispirazione e metodo. Si parla dunque di una “sinistra sociale” che si era costruita intorno a tre elementi fondamentali: «una forte e vissuta ispirazione cristiana che per un verso arricchisce di significato etico e trascendente ogni azione politica e dall’altro la collega alla dottrina sociale»; un «radicamento nel mondo sociale e nel mondo del lavoro, ricavando dalle esigenze dei più deboli un progetto per l’intero paese»;

«l’irriducibile fedeltà al metodo democratico».

Un’esperienza importante e meritoria, con molti risultati di cui andare fieri e che, secondo

Merlo, va recuperata. Per evitare di parlare di fantasmi, bisogna però scendere nel concreto, a partire dalle persone. Scrive giustamente

Paglia:«Vanno bene le scuole di formazione socio-politica, ma non bastano. Va suscitato un movimento largo e plurale di riflessioni sul presente e sul futuro del Paese, dell’Europa e del pianeta». Merlo va più nello specifico: «Senza le munizioni che arrivano dal retroterra cattolico difficilmente un’esperienza come quella della “sinistra sociale” d’ispirazione cristiana può ridecollare nella cittadella politica italiana». Con una avvertenza: «Il solo impegno nel prepolitico, seppure importante e mai da sottovalutare, non può esaurire tutti gli spazi, le energie e la volontà dei cattolici che credono nell’impegno pubblico dei credenti». Secondo Merlo, in sintesi, c’è bisogno di un “par-

tito nazionale”, un «luogo politico con una cifra autenticamente riformista, un partito culturalmente plurale, una gestione interna ispirata a criteri rigorosamente democratici e una leadership diffusa». Accanto alla struttura, una nuova concezione dello Stato liberale, la riforma elettorale (in senso proporzionale), un programma innovativo di politica economico-sociale e di solidarietà internazionale.

Tutte cose non inedite, si potrebbe osservare. Legge elettorale a parte, sulla quale le opinioni si dividono con buone ragioni da una parte e dall’altra, alzi la mano chi non ha mai sentito un esponente di un partito di qualsiasi area dire che serve un nuovo programma economico e sociale, un nuovo Stato liberale, visto che le vecchie edizioni sono evidentemente superate, di una solidarictà internazionale anche come risposta alle emergenze sempre più di carattere globale. Merlo lo sa bene, e per questo chiude con la citata intervista di Donat-Cattin. Pa-rafrasando: senza valori, condivisi, non si va da nessuna parte.

E qui la questione diventa più complicata. E lo è sin dalle premesse, perché se l’ispirazione cattolica è l’assunto fondamentale, viene naturale chiedersi di quale cattolicesimo si parli, se di quello compiacente e organico al liberismo spudorato che ha caratterizzato la politica italiana della seconda Repubblica o di quello delle periferie, dei preti di strada, di quello che interloquisce sul piano etico con le domande di senso che vengono poste dalla società in maniera complessa e che richiedono risposte cristianamente adulte, articolate ed equilibrate, che anela a praticare, per dire, l’economia circolare di Francesco. Occorre, in buona sostanza, la presa di coscienza, senza sconti, del fatto che l’esperienza del cattolicesimo in politica, come lo conosciamo, non può prescindere dalle condizioni storiche in cui si è presentato, come pure lo stesso Merlo riconosce per poi superare il problema con un salto concettuale che forse andrebbe ulteriormente chiarito.

Il tema di una politica cattolica non può prescindere dal tema della crisi della Chiesa e del cattolicesimo. La politica italiana, dalla fine della Democrazia Cristiana in poi, ha trovato sponde plurime nel mondo cattolico perché il mondo cattolico si è rivelato, con giustificazioni a volte difficili da accettare, diviso, nella pratica pastorale, anche sui suoi stessi valori, a partire dalla declinazione concreta della sua dottrina sociale. Insomma, quando si parla di una nuova politica dei cattolici si deve necessariamente parlare di una nuova Chiesa e anche dell’influenza della politica al suo interno, tema ovviamente di una complessità tale da renderlo, qui, quasi proibitivo.

E a ben vedere non sarebbe sufficiente ncanche questo. Perché, se è chiaro il riferimento alla necessità del ritorno ad una politica sociale, l’analisi anche socio-cconomica del mondo di oggi è indispensabile per un discorso che sia realmente innovativo e praticabile. Le categorie non sono quelle di un tempo: nuove povertà non significa solo persone povere che prima non lo erano ma concetti del tutto nuovi di povertà in un mondo che nel giro di pochi anni può diventare irriconoscibile. Non è una differenza da poco: la destra e la sinistra (e condivisibile, per esempio, è l’affermazione di Merlo, solo in apparenza trascurabile, secondo cui Fratelli d’Italia è da considerare sotto l’aspetto sociale più a sinistra di Lega e Forza Italia) diventano anch’esse categorie vuote e con esse inadeguata la distinzione fra ciò che è sociale e ciò che non lo è.

Così come va analizzata, anche a costo di rivelare la propria provvisoria inadeguatezza, la questione del ruolo di intermediazione politica svolto dai partiti nell’epoca del “voto continuo”, quello cioè espresso dagli elettori quotidianamente con i loro comportamenti sulla rete, che non sfuggono ai sondaggi. Il concetto di “democrazia diretta”, che esiste ormai nei fatti, pure nelle sue storture, non può essere liquidata solo come l’argomento bislacco di populisti e di politici improvvisati: è un dato. E fa tutta la differenza del mondo. Contenuti, si dirà, di cui si potrà parlare, tra persone sensate. I cattolici (quasi sempre) lo sono. Ma si ritorna, fatalmente, all’inizio: viene prima la classe dirigente o vengono prima i “vessilli” (meglio i valori) morali? Pnma un partito o prima i contenuti (concreti, tangibili, non generici)? Soccorre un’altra considerazione, espressa da Paglia nella prefazione: “(oggi) la política è senza pensiero”. Trovarne uno, come esorta anche questo libro, è prioritario.