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Che cos’è il favismo?

Il favismo è una malattia genetica ereditaria causata dalla mancanza dell’enzima glucosio-6-fosfato-deidrogenasi (G6PD), che in condizioni normali è presente nei globuli rossi ed è determinante per lo svolgimento delle loro funzioni, oltre che per la loro stessa sopravvivenza.

Il termine “favismo” risulta però improprio, poiché in alcuni soggetti fabici la reazione clinica emolitica si può manifestare anche indipendentemente dal consumo di fave e piselli.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le persone affette non possono mangiare questi legumi; inoltre, non possono essere assunte o inalate altre sostanze, come la naftalina e taluni farmaci, quali analgesici, antipiretici, antimalarici, salicilati, certi chemioterapici, chinidina, blu di metilene etc., che possono aggravare la condizione pre-esistente.

Gli individui affetti da favismo nella maggior parte dei casi non manifestano alcun sintomo.

Qualora entrino in contatto con specifiche sostanze, sviluppano una crisi emolitica acuta autolimitante, cioè che scompare da sé dopo alcuni giorni.

Queste crisi si presentano dalle 12 alle 48 ore dopo l’ingestione fave o piselli, l’assunzione di alcuni farmaci, o dall’inizio di un episodio infettivo.

La distruzione dei globuli rossi libera in circolo notevoli quantità di emoglobina, che viene metabolizzata a bilirubina; l’aumento della concentrazione di bilirubina provoca la comparsa di ittero, accompagnata dai sintomi caratteristici:

  • colorazione giallastra di cute e mucose, soprattutto a livello delle sclere (la parte bianca dell’occhio),
  • urine più scure.

 

 

De Rita “racconta” Roma e le sue «periferie abbandonate»

Già pubblicato sulla rivista Romasette il 30 Aprile 2019, 

Un mese fa la visita di Papa Francesco in Campidoglio: la visione di una Roma «città dei ponti mai dei muri», l’invito ai romani ad essere «artigiani di fraternità», l’appello a individuare «risorse di creatività e di carità necessarie per superare le paure». Ne parliamo con il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, profondo conoscitore della storia recente della città.

Il Papa ha citato il convegno “sui mali di Roma” del 1974, di cui lei fu uno dei protagonisti. Cosa è cambiato da allora?
Una delle ipotesi che si fece nelle nostre relazioni iniziali era che le periferie, i borghetti erano sempre più poveri e che si abbandonava il ceto medio. Sembrava che fornissimo una chiave di lettura superata, da dopoguerra. E invece la società romana si è evoluta proprio in quella direzione: i ricchi sempre più ricchi e una fascia marginale sempre più povera. Certo, situazioni come quella di Borghetto Latino non sono come quelle di Casilino o Torre Angela ma non sono neppure troppo lontane. La seconda cosa è la provocazione che rappresentò il convegno: la speranza di un nuovo modo di governare. Fu interpretato come un atto contro la Dc, un tentativo di sostituire la classe dirigente dell’epoca. Si chiedeva una cultura di governo diversa e oggi è lo stesso: serve qualcuno che governi non solo la città ma il Paese.

Lei ha fatto riferimento ai borghetti di 45 anni fa e alle periferie di oggi che in qualche modo continuano ad essere “in sofferenza”. Di cosa c’è bisogno per farle crescere?
Noi, intendo i promotori del convegno, dal cardinale vicario Poletti a don Luigi Di Liegro a monsignor Clemente Riva, avevamo una chiara concezione: che per Roma, le periferie e le povertà romane serviva una grande mobilitazione sociale. Non si trattò soltanto di un convegno intellettuale. Non ho più visto a Roma una iniziativa in cui ad ascoltare le relazioni iniziali ci fosse la basilica di San Giovanni gremita e nei giorni successivi 14 tra sale e cinema pieni. Anche oggi bisogna creare una socializzazione forte, senza delegare alla politica. Non basta predicare il Vangelo, bisogna mobilitare gruppi, fare società. Faccio un esempio. Nei giorni scorsi sono stato a Casal Bernocchi. È una realtà buia, piena di solitudine, non c’è un punto di aggregazione, a parte la parrocchia e una pizzeria; non c’è società, ed è quello che bisogna fare. Nel febbraio 1974 si confrontarono in fondo due modi di vedere la Chiesa: uno che tendeva a fare le sue proposte culturali e uno che propugnava, con Di Liegro in testa, una riforma delle dinamiche pastorali che si traduceva in opere, in mense, in dormitori, assistenza agli anziani, in una testimonianza alta. Però dopo 45 anni siamo ancora lì, non c’è stata una grande capacità di assorbire questi problemi.

Alla luce dei recenti episodi di intolleranza nei confronti dei rom e dell’atteggiamento nei confronti degli immigrati, ritiene che Roma sia ancora una città accogliente?
No, sebbene girando per Roma si vedono anche episodi di integrazione. I rom sono stati sempre un elemento che colpisce qualche nervo scoperto, anche i miei genitori 70 anni fa ne parlavano
male. Sono un mondo diverso e non possiamo mescolarli con gli immigrati o con gli altri poveri. Quando è iniziato il processo migratorio, 30 anni fa, era tutto molto più tranquillo.

Cosa non funziona oggi?
Un meccanismo che ritengo tragico: quello dell’esaltazione della cronaca. Chi vive nelle periferie sente la televisione e legge i giornali. E si impaurisce sulle notizie di cronaca. Anche se poi la cronaca romana non è che riporti tutti questi fatti tragici di abominio morale, sessuale, criminale… Ma nessuno può negare che ci sia una politica basata sulla cronaca, fatta a colpi di tweet. Questa esaltazione della cronaca riduce di molto ogni approccio culturale nei confronti di questa realtà. Lo dico con un pizzico di ironia: una volta la cronaca la gestiva il parroco e spesso risolveva le cose con un’omelia. Oggi per fortuna non è più così ma purtroppo la cronaca la fanno politici, a mio avviso di serie b, che la cavalcano e scatenano aggressività.

Il Papa ha fatto riferimento alle dotazioni che dovrebbe avere la Capitale ed è recente la polemica tra Salvini e Raggi. Quali pensa che siano le priorità per Roma?
La gestione ordinaria della città. Roma non ha un governo, non ha un’amministrazione ordinaria. Non so quante migliaia siano gli impiegati capitolini ma non governano Roma. Non funziona la macchina operativa intermedia. Non possiamo strillare contro i rifiuti per strada quando non si sa neppure chi sono i dirigenti che dovrebbero risolvere la questione. Assistiamo solo alla sostituzione di assessori ma gli assessori non contano, valgono i direttori generali, i vicedirettori, gli amministrativi… lasciamo perdere la grande politica. È come una grande azienda: servono i Marchionne ma poi sono indispensabili i corpi intermedi. Se non si sistema la macchina amministrativa continueremo a bruciare sindaci che non cadranno su grandi fenomeni ma su banalità o sulle esigenze quotidiane: i rifiuti piuttosto che gli scontrini del bar.

Tutto questo è per mancanza di senso civico?
Non so perché, ci siamo lasciati andare tutti. C’è stato uno sbraco progressivo. Forse un peso l’ha avuto una certa politica clientelare. Ma purtroppo oggi tirano un po’ tutti a campare ed è un po’ il corrispettivo del fatto che nelle periferie non c’è più l’attenzione all’aspetto sociale.

Castagnetti e il peccato originale

Pierluigi Castagnetti ha interrotto un lunghissimo silenzio ed è entrato nel merito della questione che ho posto all’attenzione di tutti gli amici Popolari con la lettera a “Il Domani d’Italia”, e prima ancora con un circostanziato editoriale che non ha suscitato (né avrebbe potuto suscitare) obiezioni nel merito dei fatti riportati.

Lo ringrazio per averlo fatto e anche per la stima che mi esprime dovuta all’apprezzamento per l’attività dell’Associazione piemontese e di “Rinascita popolare”, pur se questo riconoscimento rende ancora meno comprensibile l’“inerzia politica” dell’Associazione nazionale da lui presieduta.

Non ho motivi per dubitare che Castagnetti, come rivendica, abbia sostenuto negli anni una intensa attività di conferenziere esprimendo personali convincimenti in linea con la tradizione e i valori del popolarismo (pur tenendo sempre in ombra l’Associazione, se non qualificandosi come suo presidente nelle recenti celebrazioni del Centenario). E certamente la gestione dell’eredità della DC, insieme alla miriade di altri pretendenti, è stata faticosa e foriera di grane legali. Tutti i proprietari di casa sanno che i beni immobiliari arrecano spese e fastidi, ma di solito comportano anche innegabili benefici, che – lo spero vivamente – non saranno mancati all’Associazione nazionale.

Il suo intervento ha suscitato interessanti risposte nel profondo intervento di Infante sull’attualità di una presenza culturale e politica che si qualifica su concrete proposte politiche, nelle considerazioni di Merlo, sulla necessità di smarcarsi dal PD, e di D’Ubaldo, che richiama l’importanza, oggi, di far sentire unita la voce dei Popolari. Tutti interventi che in qualche modo cercano di guardare avanti, di fare un passo verso una nuova stagione di impegno politico.

Mi pare tuttavia che nel nostro piccolo rischiamo di commettere lo stesso sbaglio che in tanti imputiamo al PD, quello di non voler fare i conti con il recente passato, per chiudere una stagione e poterne aprire una nuova. È però difficile partire con il freno a mano tirato, con silenzi e reticenze che zavorrano il presente.

Ritengo perciò doveroso, e non solo utile, approfondire e chiarire alcuni punti della lettera di Castagnetti, tralasciandone altri pur politicamente importanti (ad esempio, ricordare che nessun popolare sturziano può auspicare un “nuovo partito di cattolici” o “dei cattolici”, avendo nella laicità della politica una stella polare).

Parto da questa sua affermazione: “La mia preoccupazione è sempre stata quella di non promuovere alcuna iniziativa politica e tantomeno alcun tesseramento, sia per onorare il mandato congressuale, sia per non creare situazioni di rimessa in discussione del nuovo soggetto che avrebbero trovato la reazione in primo luogo di parlamentari e dirigenti provenienti dalla nostra storia”. Un concetto che Castagnetti ribadisce più avanti: “La mia preoccupazione è sempre stata quella di evitare di provocare polemiche politiche ‘intestine’, facili da prevedere qualora avessi consentito di non rispettare il mandato congressuale del 2002”. Mandato che prevedeva la confluenza del PPI in un più ampio contenitore politico, il nuovo partito della Margherita, dopo il promettente esordio in coalizione alle Politiche del 2001.

Capisco che nella fase iniziale di questo processo fossero necessarie delle cautele per non far temere un’adesione dimezzata o poco convinta al nuovo soggetto. Ma una volta consolidata la leadership di Rutelli, una volta corroborata dai primi successi elettorali in Europee (2004), Amministrative e Regionali (2005) cosa impediva il decollo di una associazione culturale – ben diversa da un partito – depositaria dei valori del Popolarismo?

L’hanno fatta gli amici piemontesi, che hanno semplicemente attuato quanto previsto dallo statuto nazionale. Già, lo statuto. Non sono ancora così anziano, ma evidentemente ho alcune convinzioni arcaiche: credo nel valore della parola, e della parola scritta; considero la Costituzione il fondamento della comunità nazionale così come, più in piccolo, penso che un sodalizio esiste ed opera sulla base del proprio statuto che ne regola l’attività. Dallo statuto dell’Associazione nazionale “I Popolari” (che qui allego per chi volesse leggerlo) ricavo che lo scopo per cui è stata costituita era “di realizzare attività ed iniziative che mantengano viva ed attuale la tradizione del cattolicesimo democratico e del popolarismo nella vita politica, sociale e culturale italiana, al fine di conservarne la storia e di trasmetterne le esperienze e le idealità alle future generazioni, attraverso la attualizzazione dei suoi contenuti e traducendone i principi in progetto politico, economico, sociale ed istituzionale”. Parole inequivocabili e ancora oggi condivisibili, pensando all’Associazione come “un vero e proprio laboratorio di cultura e di formazione politica, impegnato a ripensare ed attualizzare, nello scenario inedito che a livello interno ed internazionale si va configurando, la tradizione ideale e storica del popolarismo e del cattolicesimo democratico. In questa linea, la sua azione dovrà alimentare idonei percorsi formativi per una nuova classe dirigente e dovrà concorrere all’affermazione di un’etica civile valida per una nuova cittadinanza”.

Se oggi ci lamentiamo, a ragione, dell’irrilevanza del pensiero cattolico democratico nella politica italiana, della mancanza di percorsi formativi della classe dirigente, un po’ di responsabilità va accollata anche a chi non ha dato seguito a questo preciso mandato, che avrebbe affiancato e favorito – non ostacolato – chi perseguiva un più diretto impegno politico.

Anche le omissioni, non solo le cattive azioni, sono da considerare peccato…

E poi – abbiamo il coraggio di dirlo – anche per i cattolici democratici, nella deriva individualista della Seconda Repubblica, sono stati più importanti i destini personali rispetto alle rappresentanze ideali.

Se un peccato originale si può individuare nel costituire l’Associazione nazionale dei Popolari, fu di non affidarla a una personalità fuori dal palcoscenico dei partiti. Castagnetti e molti dei 58 costituenti sono stati parlamentari nella Margherita e poi nel Partito Democratico. Tutti presi dall’attività politica e, anche comprensibilmente, dal proprio posizionamento nei partiti di militanza.

Non è un caso se l’Associazione qui in Piemonte è presente e attiva: Guido Bodrato, dopo aver concluso nel 2004 il suo mandato da europarlamentare, ne è stato l’orgoglioso presidente, impegnato a offrire letture e contenuti che potessero servire anche agli amici impegnati direttamente nell’agone politico – senza fare sconti per ragioni di opportunità o “carità di patria” – e preoccupato anche di farla vivere nel tempo favorendo il ricambio generazionale.

Castagnetti ha ammesso di non aver fatto nulla come Associazione per “non creare situazioni di rimessa in discussione del nuovo soggetto”. Cioè, per dirla con le parole del cartello sui vecchi tram, per “non disturbare il manovratore”. E non importa chi fosse il manovratore: siamo passati da Rutelli a Veltroni a Franceschini a Bersani a Renzi, dal riformismo di centro della Margherita al “partito plurale a vocazione maggioritaria” alla “ditta”, al “partito personale” modellato sul leader. In quindici anni il centrosinistra è stato in continua evoluzione (o, meglio, involuzione). L’unica costante è stata il silenzio dei leader ex Popolari, che si sono fatti andar bene tutto. Anche oggi sembra che ci sia ancora qualcuno preoccupato di non disturbare il nuovo manovratore Zingaretti…

Così l’Associazione nazionale, mai nata per davvero, è caduta nell’oblio, come un vecchio arnese inutile. Anzi, un vecchio arnese che si sarebbe potuto rivelare fastidioso e persino controproducente. Come avrebbero potuto gli eredi di Sturzo e De Gasperi accettare in silenzio l’adesione del proprio partito al Socialismo europeo? Accettarne la trasformazione in un Partito Radicale di massa, che esalta i diritti individuali, tacendo sui doveri, tanto cari ad Aldo Moro, e mortificando i corpi intermedi? Accettarne la deriva metropolitana e centralista, avendo nel proprio DNA le Autonomie locali incentrate sul municipalismo sturziano? Accettarne il leaderismo arrogante e autoritario, così lontano dal rispetto reciproco, dal dialogo costruttivo, dalla ricchezza del pluralismo? Accettarne i nuovi costituzionalisti di riferimento, convinti presidenzialisti, Augusto Barbera e Stefano Ceccanti, in sostituzione dei “gufi” di cultura cattolica Valerio Onida e Ugo De Siervo?

La storia è passata e, come l’acqua, non macina più. Ma è anche necessario affrontarla con onestà intellettuale per rimuovere reticenze, incomprensioni e rendite di posizione che sono da ostacolo ad un’azione futura.

Bisognerà trovare una soluzione per l’assurda situazione dell’Associazione nazionale. Possibilmente rilanciandola con le identiche finalità, che rimangono attuali, come ha auspicato Giorgio Merlo. Oppure certificarne il fallimento e liquidarla, così da eliminare un imbarazzante elemento di ambiguità per trovare altre modalità di impegno. Avevo già prospettato “una riunione dei ‘costituenti’, allargata a quanti hanno dimostrato di avere a cuore l’eredità culturale del popolarismo, per valutare il cammino percorso e decidere il da farsi”. Potrebbero farsene promotori “Il Domani d’Italia” con Lucio D’Ubaldo e “Politica Insieme” con Giancarlo Infante, che egregiamente veicolano idee e contenuti programmatici, auspicando come noi di “Rinascita popolare” una nuova stagione dei “liberi e forti”.

Ovviamente coinvolgendo Pierluigi Castagnetti e la struttura dell’Associazione nazionale. Perché anche lui, da persona intelligente qual è, dopo aver rivendicato “la scelta di non promuovere iniziative politiche legate all’attualità”, preoccupato “di evitare e di provocare polemiche politiche ‘intestine’ (…) che avrebbero ulteriormente mortificato la memoria e il prestigio della nostra tradizione”, si sarà chiesto dove ha contribuito a portarci quella scelta. La presenza dei Popolari è oggi visibile, forte? La nostra tradizione è un riferimento nella vita politica italiana? Ne riconosciamo qualche elemento nell’involuzione della nostra democrazia?

Sono domande retoriche, dalla risposta scontata, se tanti parlano di “irrilevanza” della cultura cattolico democratica e tutti concordiamo sul fatto che stiamo vivendo tempi difficili, preoccupanti in prospettiva.

Noi Popolari in questo momento non siamo certamente forti. Non lo siamo anche perché – con pochi fatti, tante reticenze e silenzi – si sono viste scelte di corto respiro, legate a opportunismi e piccole convenienze. Chi aspira all’eredità dei “liberi e forti” dovrebbe volare più alto, sapendo che non si può essere forti se prima non si è liberi.

L’Indecisione regna sovrana

A volte rimango sbalordito nel sentire il governo nazionale che riporta in evidenza argomenti che sembravano morti e sepolti. L’ultima, in ordine temporale, è stata la questione delle Province che il Governo Matteo Renzi, nella persona del Ministro Graziano Del Rio, aveva iniziato a cancellare. A onor del vero era stata cancellata solo scheda elettorale, sottraendola ai cittadini, ed erano stati dimezzati i trasferimenti finanziari dello Stato alle Province stesse. Fatto salvo per il caso del Friuli Venezia Giulia dove sono state per davvero eliminate dall’allora Presidente della Regione che della questione ne aveva fatto una ragione di vanto nazionale, salvo però istituire numerosi nuovi organismi, molto più costosi delle quattro Province preesistenti che a distanza di quattro e più anni dalla loro costituzione, ancora non hanno dispiegato la loro azione di utilità sociale.

Adesso, si ritorna a parlare delle Province dopo che sia la riforma nazionale che quella regionale hanno messo in luce l’inadeguatezza della loro azione di pianificazione, organizzativa e finanziaria incapace di rispondere alle esigenze dei territori.

Il governo nazionale di centro sinistra e altrettanto quello del Fvg, della precedente legislatura, hanno dimostrato la superficialità delle loro rispettive riforme, esclusivamente basate sulla propaganda che sulla concretezza. E ciò per la mancanza di volontà e capacità di studiare tematiche da trasformare in provvedimenti legislativi che dessero risultati confacenti all’aspettativa dei cittadini di avere una pubblica amministrazione adeguata a dare risposte ai bisogni.

No, nulla di tutto questo è accaduto e i risultati si sono visti proprio tutti come la grave carenza di interventi nelle scuole, la quasi totale assenza di manutenzione delle strade e così via dicendo. Ma, fortunatamente, oggi ci si accorge che qualcosa non funziona e che bisogna rimettere mano alla legislazione. Però, sono convinto che non sarà facile risolvere questi problemi perché il livello di conflittualità nel governo nazionale è così forte da non consentire soluzioni rapide come, invece, servirebbero. Come pure nella nostra Regione Fvg pur avendo un governo che allo stato attuale non presenta conflittualità interne, le cose non proseguono spedite. Infatti, i mostruosi e numerosi organismi ideati dal centro sinistra, capitanato dalla allora sua Presidente, con obbedienti fino all’inverosimile i suoi assessori, che fino a oggi non sono riusciti nemmeno a decollare, non sono stati modificati nonostante le promesse del programma elettorale del centro destra.

Assistiamo perciò a una confusione generalizzata: quella nazionale dove il governo giallo-verde si contrappone tra chi vuole le province e chi no e, quella regionale, dove prevale la non scelta che ovviamente ingessa completamente gli attuali organismi nell’attesa che qualcosa succeda. È evidente che così facendo, entrambi i governi, non faranno altro che continuare a deludere le aspettative delle comunità interessate. Una cosa è certa: così facendo non si governa ma si peggiora e pure di molto, le condizioni dei territori!

L’ondata populista che ha colpito l’Estonia

A marzo, in un’elezione nazionale, il partito popolare conservatore – un partito di estrema destra che dice di voler proteggere una popolazione “estone indigena” minacciata – ha conquistato 19 seggi nel parlamento del Paese.

Ma la sua vera vittoria è arrivata poche settimane dopo, quando la compagine politica è stata inclusa nel governo della coalizione a tre partiti raccogliendo cinque ministeri chiave, anche quello degli affari economici.

Il partito, noto con il suo acronimo EKRE, si presenta come un partito anti-UE.

Nelle settimane successive alla vittoria elettorale si è subito potuto notare come i membri dell EKRE, abbiano iniziato a fare politica con la classica retorica incendiaria dei populisti sovranisti.

Mart Järvik, (politico è ministro) sospetta che i maggiori politici del paese siano “ebrei segreti”. E con fare, molto simile, al presidente degli Stati Uniti Trump o al leader ungherese Viktor Orbán – attaccano regolarmente i giornalisti che considerano “prevenuti”.

La questione delle alleanze tra partiti liberal-democratici e sovranisti, va detto, non è nuova. Già quattro anni fa, dopo le elezioni finlandesi, il Partito di centro formò un’alleanza di governo con i Veri finlandesi, concedendo loro importanti ministeri come quello degli Esteri.

E in Danimarca il governo liberale di centro-destra si regge dal 2015 grazie al sostegno esterno del Partito del popolo danese, di estrema destra, che infatti nel prossimo Parlamento europeo sarà alleato della Lega e dei principali partiti nazionalisti in Europa.

Però. ora che si avvicinano le elezioni europee, sembra sempre più chiaro che i partiti tradizionali dovrebbero evitare di andare sotto braccio coi partiti sovranisti di nuova generazione. Almeno che non si vogliano buttare via 70anni di storia.

 

Se l’Italia (può) organizzare grandi eventi sportivi

Per cinque anni consecutivi, dal 2021 al 2025, si terranno a Torino le finali Atp di tennis, il torneo di fine anno in cui si affrontano, come da tradizione, i primi 8 giocatori del mondo. Una novità assoluta per l’Italia che non aveva mai ospitato questa manifestazione, la più importante per il tennis professionistico, in programma dopo le quattro prove del Grande Slam. Per averla, Torino ha dovuto battere la concorrenza (agguerrita e qualificata) di Londra, Tokyo, Singapore, Manchester e Barcellona.

Non è una notizia da confinare nelle pagine sportive, per più di una ragione. La prima riguarda il valore economico dell’impresa. Per Torino il giro d’affari sarà, ogni anno, tra i 120 e i 150 milioni di euro. Negli ultimi nove anni le Atp Finals hanno portato a Londra oltre due milioni e 300mila persone, mentre 100 milioni di spettatori hanno seguito il torneo in televisione. La candidatura di Torino ha avuto la meglio grazie all’intraprendenza della sua amministrazione e anche grazie al sostegno finanziario del governo, che ha stanziato la somma necessaria per il montepremi quinquennale. In questo caso ha ben funzionato (per una volta) il gioco di squadra tra il Comune di Torino e Palazzo Chigi.

Ma ha funzionato anche – e questa è la seconda lezione – la capacità dei torinesi di valorizzare quanto di buono era stato fatto negli anni scorsi, da altre amministrazioni comunali e in altre stagioni politiche. La candidatura è risultata vincente anche perché Torino dispone degli impianti adatti e in particolare del Pala Alpitour, struttura costruita per le Olimpiadi inverali del 2006 in grado di ospitare 15 mila spettatori. L’affidabilità dimostrata in passato è diventata una garanzia per il presente. D’altra parte più volte nel corso della storia patria i piemontesi hanno dimostrato di saper conciliare il valore del cambiamento con quello della continuità. Tra poco più di un anno, nel giugno 2020, lo Stadio Olimpico di Roma ospiterà la partita inaugurale del Campionato Europeo di calcio, per la prima volta itinerante. Ci aspettiamo dalla sindaca Raggi lo stesso scatto di orgoglio dimostrato dalla collega Appendino: Roma non può fallire una manifestazione sportiva così importante: hic Rhodus, hic salta.

I media e il concordato Stato-Chiesa del 1929

Nel 1929 Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri, plenipotenziario della Santa Sede, firmarono un trattato che cambiò la storia: come rispose l’opinione pubblica del tempo? Come le forze schierate in campo, nell’informazione e nella politica, raccontarono e vissero il riavvicinamento fra lo Stato italiano e la Santa Sede?

Novant’anni dopo la stipula dei Patti Lateranensi, il nuovo eBook edito da The Skill Press, “I media e il concordato Stato-Chiesa del 1929”, di Alessandro Vinai, analizza come il sistema dell’informazione nazionale reagì alla firma dello storico trattato. Lo fa attraverso uno studio dei giornali del tempo, palcoscenico dei rapporti di forza tra i diversi movimenti politici e sociali in campo (fascisti, cattolici, liberali, socialisti, monarchici…), e la lettura ragionata di testate quali, tra le altre, L’Osservatore Romano, Il Popolo d’Italia, La Stampa.

Il volume è arricchito dalla firma di Giovanni B. Varnier, docente presso l’Università di Genova ed esperto di relazioni tra Stato e Chiesa in Italia, istituzioni ecclesiastiche e minoranze religiose. Varnier, membro di diversi comitati di direzione per riviste e istituti, ha scritto più di 350 pubblicazioni di carattere politico, giuridico, storico, tra cui ricordiamo “Gli ultimi governi liberali e la questione romana” (ed. Giuffrè, 1976), “Le minoranze religiose in Italia e Il fenomeno religioso nella trasformazione dell’ordinamento giuridico” (ed. San Paolo, 1997).

Tra i protagonisti dell’accordo Benito Mussolini, capo di governo del Regno d’Italia, interessato ad accrescere il proprio consenso, e Papa Pio XI, mosso dalla volontà di superare il conflitto e la separazione civile che aveva fin lì contraddistinto le masse cattoliche in Italia. Un delicato equilibrio giocato e soppesato sulle colonne dei giornali, in un mondo che di lì a poco sarebbe stato interamente stravolto dalla guerra prima e dalla modernità poi.

L’ebook è disponibile sulle piattaforme Amazon e Kindle.

Don Primo Mazzolari: “Il primo Maggio è di tutti”

E poi c’è un’altra rivendicazione del mondo del lavoro: la fatica deve essere pagata onestamente, deve essere giustamente retribuita. Non si può domandare la fatica dell’uomo e non darle quello che giustamente merita per vivere, non per vivere appena, ma per vivere da uomini e da cristiani, per avere una casa, per avere una tranquillità, per avere nell’ora della sofferenza non il vuoto del bisogno intorno e nessuna mano che s’allunga.

E, allora, miei cari fratelli, non vi ricordate che è stata appunto questa Chiesa che ha parlato di un peccato, un peccato contro lo Spirito, cioè il più grande, che non si perdonerà né in questa, né nell’altra vita: il defraudare la mercede all’operaio, qualche cosa di sacro, come un sacramento. E chi non paga la fatica, miei cari fratelli, fa un sacrilegio, è come il sacerdote indegno che butta via l’ostia del Signore.

Da “Il primo Maggio è di tutti” di Don Primo Mazzolari (Bozzolo, 1 Maggio 1957)

 

Vita di Don Primo Mazzolari

Primo Mazzolari nacque agli inizi del 1890 a Santa Maria del Boschetto, frazione rurale di Cremona, città in cui nel 1902 entrò in seminario. Come riportano le pagine del suo Diario, elaborò fin dall’adolescenza alcune idee sulla Chiesa e sulla società che avrebbe mantenuto negli anni della maturità: la fiducia accordata alla modernità (in antitesi alla visione che di essa aveva dato il mondo cattolico intransigente), il suo patriottismo di ispirazione risorgimentale e democratica («l’avvenire è della democrazia: […] dobbiamo essere noi cristiani, che abbiamo la vera democrazia di Cristo» scrisse nel 1906), l’affermazione della propria libertà di coscienza (scrisse nel 1907: «Io amo la Chiesa e il Pontefice, ma la mia devozione e il mio amore non distruggono la mia coscienza di cristiano»).

L’approfondimento di questi pensieri, durante gli anni del seminario, lo unì in amicizia al compagno di studi Annibale Carletti, accomunato dalla medesima ottica modernistica e riformatrice. Fra i due seminaristi si sviluppò una solida intesa di ideali e un affetto profondo che perdurò tutta la vita.

Il 24 agosto 1912 venne ordinato presbitero a Verolanuova dal vescovo Giacinto Gaggia; il 1º settembre dello stesso anno venne nominato curato a Spinadesco e il 22 maggio 1913 a Santa Maria del Boschetto.

Favorevole all’interventismo democratico, nel 1915 si arruolò come volontario nella prima guerra mondiale e divenne cappellano militare nel 1918.

Rientrato in Italia nel 1919, venne nominato Cavaliere della Corona d’Italia e inviato in Alta Slesia, prima di essere definitivamente congedato nel 1920.

Il 31 dicembre 1921 venne nominato parroco a Cicognara. Il 10 luglio 1932 venne trasferito, infine, nella parrocchia di Bozzolo, dove visse per il resto della sua vita.

Nel 1925 fu denunciato dai fascisti per essersi rifiutato di cantare il Te Deum dopo il fallito attentato a Mussolini ad opera di Tito Zaniboni.
La notte del 1º agosto 1931, chiamato alla finestra della canonica, gli spararono tre colpi di rivoltella che tuttavia non lo colpirono.

Dopo l’8 settembre 1943, partecipò attivamente alla lotta di liberazione, incoraggiando i giovani a partecipare, e venne arrestato e rilasciato. Fu costretto a vivere in clandestinità fino al 25 aprile 1945, per timore dei fascisti.

Dopo la guerra, l’Anpi di Cremona gli riconobbe la qualifica di partigiano.

Nel 1949 fondò il quindicinale Adesso del quale fu direttore. I suoi scritti attirarono le sanzioni dell’autorità ecclesiastica che ordinò la chiusura del giornale nel 1951. A luglio dello stesso anno, venne imposto al prete il divieto di predicare fuori diocesi senza autorizzazione e il divieto di pubblicare articoli senza una preventiva revisione dell’autorità ecclesiastica.

Il quindicinale poté riprendere le pubblicazioni a novembre, ma don Primo dovette lasciare l’incarico di direttore; egli continuò tuttavia a scrivere alcuni articoli sotto pseudonimi. Proprio alcuni di questi scritti sul tema della pace attirarono nuove sanzioni; nel 1954, infatti, fu imposto a don Primo il divieto assoluto di predicare fuori dalla propria parrocchia e il divieto di pubblicare articoli riguardanti materie sociali.

Dagli inizi degli anni cinquanta don Primo sviluppa un pensiero sociale vicino alle classi deboli (Nessuno è fuori della carità) e ai valori del pacifismo che attireranno le critiche e le sanzioni delle autorità ecclesiastiche fino a portarlo all’isolamento nella sua parrocchia di Bozzolo.

Con la pubblicazione anonima di Tu non uccidere, nel 1955, Mazzolari attaccava a fondo la dottrina della guerra giusta e l’ideologia della vittoria, il tutto in nome di un’opzione preferenziale per la “nonviolenza”, da sostenere con un forte «movimento di resistenza cristiana contro la guerra» e per la giustizia, vista come l’altra faccia della pace. Al fondo c’era la nuova consapevolezza del significato dirompente della bomba atomica, che aveva cambiato il campo razionale entro il quale il realismo aveva potuto muoversi per giustificare l’extrema ratio della guerra.

È solo nella seconda metà degli anni cinquanta che don Primo Mazzolari cominciò a ricevere le prime attestazioni di stima da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche. Nel novembre del 1957 l’arcivescovo di Milano Montini, futuro Papa Paolo VI, lo chiama a predicare presso la propria diocesi, molte idee sui poveri e sulla missione della Chiesa accomunano Montini e Mazzolari[6]; nel febbraio del 1959 Papa Giovanni XXIII lo riceve in udienza privata e lo saluta pubblicamente “Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”.

Il 20 giugno 2017 papa Francesco si è recato in visita a Bozzolo per ricordare la figura di don Primo Mazzolari .

Qui potete leggere l’omelia del Papa.

Aldo Moro e il lavoro dell’uomo

Oggi festa dei lavoratori, vogliamo pubblicare questo breve scritto di Aldo Moro, a nostro avviso denso di un significato troppo spesso dimenticato 

Sia dunque ben chiaro che, quando si parla di un giusto controllo dell’economia e di rapporti umani, su base di autonomia, dignità e responsabilità nell’ambiente di lavoro, non si discute solo di efficienza produttiva, ma di condizione sociale della persona, di qualche cosa che va al di là della pur naturale rivendicazione di benessere e della giustizia, per toccare la posizione dell’uomo ed il suo modo di essere, il solo accettabile ed appagante, nella società.

La partecipazione così intesa è non solo mezzo, ma anche è più fine; è il superamento della civiltà dei consumi in favore della civiltà dell’uomo. In termini di libera politica e di dignità ed autonomia sociale si riscatta la persona dall’inquietudine e dallo scontento, che il solo benessere non riesce a placare. In una tale condizione c’è un lavoro da compiere ed una disciplina da accettare. Ma è importante e caratterizzante che in essi si esprima l’uomo non come servo della macchina, della tecnica, dei padroni, del potere, ma come libero e responsabile protagonista della vita sociale e politica.

1° Maggio, la festa dei lavoratori 2019: memoria e speranza

Diventa difficile parlare della festa del lavoro quando un terzo dei giovani italiani non sono occupati, il tasso di disoccupazione è sempre sopra al 10% (l’Italia è la penultima nella classifica dei Paesi Europei per i senza lavoro, l’ultima è la Grecia) e il numero degli incidenti del lavoro sono in costante aumento, nel 2018 le denunce per infortuni sono state 641 mila e i morti 1133.  Tuttavia le ricorrenze o gli anniversari, hanno sempre un senso, perché rappresentano la memoria e l’evoluzione che ha caratterizzato il nostro Paese. Stiamo di fronte alla Costituzione della Repubblica Italiana, ove all’articolo 1, è scritto: “L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro.”

 

La Costituzione è la regola fondamentale, con diritti e doveri, va rispettata e attuata, è la “stella polare” della vita democratica e sociale dell’Italia, e in questo senso il suo dettato è di perenne attualità, per garantire sviluppo e libertà, in questa fase dove “il nuovo appare come un vecchio passato” e ciò che è stato costruito, con tutti i limiti, deve  essere rimosso o cancellato. E’ preferibile fare memoria e guardare al futuro con realismo e concretezza, senza approssimazioni o improvvisazioni. Ecco perché ricordare il 1° maggio è importante, per tutti, giovani e meno giovani.

 

Che cosa ha rappresentato nell’immaginario collettivo e nella storia la festa dei lavoratori ?

Il 1° Maggio nasce come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, ne tanto meno sociali per affermare i propri diritti, per raggiungere obiettivi, per migliorare la propria condizione.

“Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire” fu la parola d’ordine coniata in Australia nel 1855, condivisa da gran parte del movimento organizzato del primo Novecento.

Si apri cosi la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, il primo di Maggio, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare forme di lotta e affermare la propria autonomia e indipendenza.

Negli Stati Uniti, nello Stato dell’Illinois, nel 1866 ci fu il primo riconoscimento, con molte limitazioni, della giornata lavorativa a otto ore; sempre nello stesso anno in dodicimila fabbriche degli Stati Uniti, oltre 400mila lavoratori incrociarono le braccia il 1°Maggio e nella sola Chigaco 80 mila operai scioperarono e parteciparono a un grande corteo.

Tutto si svolse pacificamente, ma nei giorni successivi ci furono scontri fra manifestanti e polizia, per protestare contro i licenziamenti di una fabbrica, ci furono diversi morti.

Da quei fatti e nel ricordo dei “martiri di Chigaco”, che erano diventati il simbolo della lotta nacque il 1° Maggio.

 

La decisione fu assunta cosi come indicato dal Congresso costitutivo della “Seconda internazionale” riunito a Parigi, il 14 luglio 1889, nel centenario della presa della Bastiglia, ( l’evento storico più significativo della Rivoluzione francese) e venne deciso, dopo forti discussioni, di garantire ai sindacati  l’autonomia e l’indipendenza dai partiti. Nel 1890, per la prima volta si svolsero manifestazioni simultaneamente in tutto il mondo con successo, per la grande partecipazione di lavoratori e di cittadini.

 

A Roma la manifestazione era stata convocata in Piazza Santa Croce in Gerusalemme, nei pressi di S. Giovanni, la tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono morti e feriti, centinaia di arresti tra i manifestanti, con la folla che sosteneva la causa dei lavoratori. Nel resto d’Italia e del mondo le manifestazioni del 1° Maggio ebbero uno svolgimento più tranquillo, lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori e dei cittadini. Iniziava una nuova stagione per i lavoratori sfruttati e sottopagati, con tanti diritti da conquistare.

Nel nostro Paese il fascismo decise la soppressione della Festa del 1° Maggio, durante il ventennio, e fu fatta coincidere con le celebrazioni del 21 aprile, il Natale di Roma, mentre la festa del lavoro veniva connotata come “sovversiva”.

 

Nel dopoguerra , il ripristino della Festa del 1° Maggio fu conseguenza della Liberazione, nel 1947 a Portella della Ginestra in Sicilia, venne scritta una pagina nera a opera della banda Giuliano.

Durante una manifestazione per festeggiare la fine della dittatura, la ritrovata libertà e rivendicare migliori condizioni di lavoro per i braccianti e i mezzadri agricoli venne compiuta una strage, che causò 11  morti e 50 feriti. Successivamente il 1° Maggio 1955, il Papa Pacelli, Pio XII, istituì la celebrazione di San Giuseppe Lavoratore, venendo incontro a una richiesta del 1945 delle ACLI, così da ufficializzare la ricorrenza anche per i lavoratori cattolici.

 

Le forti trasformazioni sociali nel corso dei decenni trascorsi, il mutamento delle abitudini, la progressiva omogeneizzazione degli stili di vita, l’industrializzazione del paese, il ruolo della cultura e dello studio, la crescita dei servizi e della comunicazione attraverso i social, le conquiste di migliori condizioni economiche e civili, hanno profondamente cambiato il significato di una ricorrenza che aveva esaltato la distinzione della classe operaia.

Il modo di celebrare il 1° Maggio è quindi cambiato negli ultimi due decenni dello scorso secolo, questa condizione è da attribuire alla partecipazione e alle lotte dei lavoratori di tutte le categorie che hanno modificato la società italiana

 

Dal 1990, CGIL- CISL- UIL hanno scelto di celebrare la giornata del 1° Maggio promuovendo una manifestazione nazionale dedicata a specifici temi.  Quest’anno a Bologna, con questo lo slogan : “Lavoro, Diritti, Stato Sociale, La Nostra Europa.” La scelta della Città Capoluogo dell’Emilia Romagna, “perchè ha sempre combattuto per la difesa dei diritti, che ha sempre fatto  delle battaglie per il lavoro, per l’accoglienza, la difesa dei diritti di cittadinanza e di inclusione sociale, questi i tratti distintivi della sua storia.”

 

Inoltre è diventato un appuntamento storico il tradizionale “Concerto” del 1° Maggio a Piazza San Giovanni, chiamato in forma popolare “Concertone”,   che con la diretta Non-Stop della Rai, lo scorso anno ha registrato, 16,8 milioni di contatti unici TV e la “media share” della diretta su Rai 3, ai massimi storici. Quindi “un Primo Maggio che è la festa non solo di chi lavora, ma di tutti coloro che desiderano lavorare e costruire la loro dignità sul lavoro, e attraverso il lavoro si uniscono le diverse generazioni.

  

Viene infine da domandarsi, ed è una domanda di grande attualità, richiamando quanto affermava Papa Giovanni Paolo II, oggi Santo, nell’Enciclica la “Laborem exercens”( Compiendo il lavoro): “Nell’attuale mutato quadro di riferimento ha ancora senso parlare di priorità del lavoro sul capitale? Esistono ancora oggi buone ragioni per sostenere il principio del primato del lavoro e la centralità dell’uomo”.

Saranno necessarie nuove forme di responsabilità, intesa come spirito di servizio, superando il culto dell’individualismo e dell’approssimazione nella gestione della cosa pubblica e dell’economia; certamente le forze politiche e le forze sociali dovranno tenere conto, ove il sindacato deve superare le differenze e le divisioni di questi ultimi anni, avendo avanti agli occhi e nel cuore, il valore e lo spirito che ispirò la nascita della Festa del 1° Maggio.

In gioco ci sono le sorti delle giovani generazioni del nostro Paese e il futuro dell’Europa. Bisogna crederci, impegnarsi e partecipare, pensando anche alla storia del 1° Maggio, Festa Internazionale del Lavoro, può aiutare.