Già nell’introduzione e nel primo capitolo del Vostro libro si intuisce l’importanza di un inquadramento storico del concetto di memoria: i primi studiosi hanno parlato di ‘anamnesis’ e ‘mneme”, cioè apprendimento e accesso alle informazioni conservate nel deposito della memoria stessa. C’è dunque in questo termine il significato della sua sedimentazione nella storia e il processo gnoseologico che continuamente lo alimenta. Mi è piaciuta molto la definizione sintetica che avete dato: memoria è ‘codifica’, ‘immagazzinamento’ e ‘rievocazione’. Questa sequenza vale tanto nell’ontogenesi quanto nella filogenesi? In altri termini è applicabile al singolo individuo nella sua parabola esistenziale e all’umanità nella storia? 

Quando parliamo di memoria, parliamo appunto di un processo che ne contiene altri, anche qualitativamente differenti, come appunto l’apprendimento di un’informazione e la sua rievocazione. La divisione in fasi di “codifica”, “immagazzinamento” e “rievocazione” è una semplificazione pratica e, potremmo dire, quasi fenomenologica del processo di memoria. In altre parole, per poter rievocare un’informazione, questa deve essere immagazzinata in memoria e per essere immagazzinata in memoria, questa deve essere stata appresa. Sappiamo però che la memoria è molto più dinamica di così, per cui ad esempio quando si rievoca un’informazione, in realtà può avvenire anche un processo di aggiornamento della stessa informazione per consentire di prevedere meglio il futuro. Ne parliamo per esteso nell’ultimo capitolo: è una prospettiva piuttosto nuova e ribalta completamente l’approccio “normale” alla memoria. Per quanto riguarda la sequenza mnestica sopra citata e il suo ruolo a livello di singolo individuo e di storia umana, è molto difficile fare una ricerca “archeologica” della memoria, diciamo. Possiamo pensare che la memoria di Giulio Cesare o di Cristoforo Colombo funzionasse praticamente come la nostra; è però difficile andare più indietro rispetto a circa cinquemila anni fa – prima della scrittura per intenderci –, perché non possiamo avere testimonianze in merito. Siamo portati però a ritenere che una parte consistente di quello che è la memoria ha a che fare con elaborazione di simboli e conoscenza concettuale, che interagiscono profondamente col linguaggio. In questo senso, possiamo pensare che senza il linguaggio, gran parte della nostra esperienza mnestica sarebbe completamente differente. Con ciò però non si vuol dire che gli animali non hanno memoria, che la loro funziona diversamente o che ha un’altra finalità, ma solo che in termini di elaborazione concettuale è ampiamente inferiore alla nostra.

Risalendo alle origini storiche del concetto di memoria Vi soffermate in particolare sulla rappresentazione simbolica che ne dà Platone e a quella di Aristotele. Mentre il primo disconosce l’importanza degli apprendimenti per costruire i processi della conoscenza e attinge dal mondo delle idee una realtà preesistente, il secondo invera una concezione della memoria come funzione cognitiva legata al passato. Potete spiegare in che termini questa intuizione, fondata sul concetto di magazzino del passato a cui attingere, ha costituito un punto fermo nello studio della memoria? 

La prospettiva Aristotelica è stata per molto tempo quella dominante all’approccio alla memoria, sia sul piano pratico, sia su quello scientifico: la memoria serve a ricordare e come tale va studiata. Questo approccio però ha ampi limiti sperimentali, perché non tiene in considerazione le caratteristiche cognitive di questa, e specula solamente su inferenze “ingenue” sulla natura della memoria. Siamo infatti abituati a vivere il processo di ricordo come qualcosa di ampiamente rilevante all’interno della nostra storia di vita in virtù degli aspetti autobiografici che ci legano all’evento che viene ricordato e, di conseguenza col passato. Più o meno provocatoriamente, noi proponiamo che la memoria non serve a ricordare, ma serve a prevedere.

Questa prospettiva, quella di una memoria come sistema di previsione può sembrare controintuitiva. Ci spiegate come si articola e da quali evidenze è supportata?

Il discorso è molto semplice: abbiamo un sistema – la nostra memoria – che, se supponiamo che sia un sistema di ritenzione e di puro ricordo, funziona molto male. In altre parole, e lo esperiamo ogni giorno, la nostra memoria è imprecisa, distorce i ricordi e dimentica la maggior parte delle informazioni che incontra. Se fosse un sistema devoto solamente all’immagazzinamento di informazioni, funzionerebbe molto male. Allo stesso tempo, dobbiamo tener presente un principio fondamentale: se la nostra memoria si è evoluta in questo modo è perché garantisce a qualche livello un vantaggio adattivo. È quindi utile che abbia dei limiti, che dimentichi e che distorca. Queste caratteristiche acquisiscono senso nel momento in cui ribaltiamo la prospettiva, perché non sono coerenti con un sistema di ritenzione, ma lo sono con un sistema di previsione, con un sistema che ha bisogno di poche conoscenze flessibili (ecco perché dimentica) e sempre aggiornate (ecco perché distorce). In questo senso quindi ricordiamo male per prevedere meglio.

Hermann Ebbinghaus – Associazionismo – Gestalt – Comportamentismo (o Behaviorismo): sono alcuni passaggi nel processo di affrancamento in epoca moderna della psicologia come scienza dalla filosofia. In che misura ciò è determinante per approfondire gli studi sulla memoria, ad esempio utilizzando gli schemi di rinforzo per ovviare alla dimenticanza o per giungere ad una categorizzazione tra memoria corta e memoria lunga, o meglio “a breve termine” e “a lungo termine”, comprese differenziazioni funzionali rilevanti come quella tra ‘memoria di ritenzione’ e ‘memoria di lavoro ’ oppure tra ‘memoria episodica’ e ‘memoria semantica’, utili per comprendere il consolidamento del ricordo?

Già con Ebbinghaus – nella seconda metà dell’Ottocento – si parla di psicologia come scienza, anche se è con il Comportamentismo e, più nello specifico, con Skinner, che si arriva alla formalizzazione di principi epistemologici “duri” nell’approccio alla cognizione umana. Ciò che è adesso la scienza cognitiva lo deve in gran parte a studiosi come Ebbinghaus e Skinner, che sono tra i primi ad aver riconosciuto la necessità di abbandonare le spiegazioni mentalistiche sui processi cognitivi e, conseguentemente, ad aver evidenziato la necessità di fondare le teorie psicologiche su basi sperimentali solide. Le prospettive cognitiviste e poi le scienze cognitive derivano direttamente da questi approcci radicali che hanno spogliato la psicologia delle sue vestigia filosofiche e le hanno consentito di farsi scienza. Le teorie sviluppate al giorno d’oggi in materia di memoria e delle sue classificazioni si basano su evidenze sperimentali e rispettano i principi “positivi” secondo i quali ogni affermazione di carattere teorico deve essere supportata e corroborata da ricerche scientifiche.

Le neuroscienze hanno dato un contributo decisivo per approfondire il concetto di memoria all’interno dei processi cognitivi e di immagazzinamento dei dati, inoltre per localizzare le sedi deputate alla memoria nel cervello. Volete offrire ai lettori alcune puntualizzazioni utili per una “topografia” della memoria nella mente dell’uomo?

Anche in questo caso ci tocca “provocare”. Una topografia è senza dubbio possibile: sappiamo che l’ippocampo è una delle strutture fondamentali, che certe aree sono maggiormente coinvolte in elaborazioni di tipo verbale, altre di tipo visivo. Però in linea di massima al momento non siamo in grado di identificare un luogo fisico in cui i ricordi sono immagazzinati. Questo per due motivi: da un lato la memoria è un sistema che coinvolge praticamente tutte le funzioni cognitive, è quasi sempre attivo ed è più probabile (oltre che economico) che esistano vari sottosistemi legati alle singole funzioni cognitive, piuttosto che un unico luogo che mantiene per tutti le informazioni. Dall’altro lato, le tecniche maggiormente utilizzate per indagare le funzioni cognitive – ci riferiamo alle tecniche di neuroimmagine – necessitano di una formalizzazione chiara del processo che si propongono di osservare e misurare. In questo senso, che si attivi una certa area del cervello quando si ricorda un evento, non implica necessariamente che lì si trovi quel ricordo, ma solo che lì avviene una parte della sua elaborazione. Sarebbe altrimenti come postulare che la parte del PC che si scalda durante l’uso di un certo programma è quella in cui i dati di quello stesso programma sono immagazzinati.

Intervistando il Prof Arnaldo Benini Emerito di Neurologia e Neurochirurgia all’Università di Zurigo e il Prof. Giulio Maira chirurgo del cervello e Presidente di Fondazione Atena, sul tema della mente, delle sue straordinarie potenzialità ma anche delle sue ricorrenti fragilità (legate anche all’età, come la ‘dimenticanza senescente benigna’) ), era emerso come la sindrome di Alzheimer (la quale consiste  in un processo degenerativo delle capacità cognitive che si conclude con una condizione di dissociazione dalla realtà che passa attraverso fasi di progressivo declino delle facoltà mentali) provocasse una perdita della conoscenza e della memoria  – per usare una metafora – come se una spugna cancellasse il passato, offuscasse il presente e rimuovesse ogni futuro. Con particolare riferimento al fenomeno della perdita della memoria, come si coniuga la prospettiva che proponete di una “memoria rivolta al futuro”?

La dimenticanza è parte integrante del processo di memoria. Prendiamo l’esempio opposto: ci sono persone che non sono in grado di dimenticare (si parla di ipertimesia o di highly superior autobiographical memory) e, quindi, ricordano con precisione ogni momento di ogni giorno vissuto. Uno dei primi a parlarne è stato Luria (Luria, A.R. 1968. The mind of a mnemonist: A little book about a vast memory. Cambridge: Harvard University Press), che ha evidenziato come questa straordinaria capacità mnestica non costituisca in realtà un vantaggio adattivo, ma che invece limiti l’esercizio della persona in qualunque attività quotidiana. Una persona che non è in grado di dimenticare non può porre un ordine nelle proprie memorie e quindi è, paradossalmente, come se non avesse una memoria. È, al contrario, importante dimenticare per poter produrre conoscenza concettuale flessibile e sempre pronta all’uso. La dimenticanza, così come gli errori che la nostra memoria compie, però, non è sempre positiva, e va infatti considerata alla luce delle motivazioni che ne causano l’insorgenza e delle (eventuali) finalità che questa assolve.

La neuroplasticità del cervello è forse una delle caratteristiche più importanti della mente umana perché consente un continuo adattamento agli stimoli esterni ma anche la possibilità di controllare e gestire i cambiamenti spazio-temporali della nostra vita. Ad esempio, il reset notturno durante il sonno taglia molti input accumulati durante la giornata, una sorta di assottigliamento di circa il 20 % delle migliaia di miliardi di sinapsi presenti nella nostra corteccia cerebrale e ciò per evitare un ingolfamento informativo che depotenzierebbe ulteriori potenzialità cognitive.  Come funziona – se esiste – l’analogo processo di dimenticanza? In altre parole, perché ricordiamo determinate informazioni e non altre? 

In linea di massima, le informazioni che vengono mantenute hanno una certa utilità sul piano pratico e con l’esercizio cognitivo in generale. Mi spiego: ricordo la strada tra casa e lavoro perché mi serve per andare al lavoro e perché ha una certa rilevanza nel mio adattamento all’ambiente. Se dovesse cambiare il mio posto di lavoro, parte di quelle vecchie informazioni decadrebbe (si perderebbero soprattutto i dettagli contestuali della traccia mnestica) perché non se ne fa più uso e quindi non è più utile sul piano pratico. Si parla in genere di use it or lose it (usalo o perdilo) per indicare questo processo automatico. Ovviamente esiste tutta una serie di modalità di “controllo” del processo mnestico, di apprendimento consapevole diciamo, come quello che mettiamo in atto quando dobbiamo memorizzare una lista di parole, un nome o la forma di un oggetto. Il punto è che, come sperimentiamo tutti, buona parte di quanto abbiamo appreso in questo modo diventa oggetto di oblio in rapidissimo tempo. Basti pensare a tutto quello che abbiamo studiato a scuola e che è stato scordato dopo un breve lasso di tempo. Non assolveva più una chiara funzione pratica una volta terminato il processo di valutazione da parte dell’insegnante e, quindi, era “dannoso” mantenerlo ed è stato rimosso.

Qual è il ruolo delle emozioni nei ricordi e qual è il significato del termine ‘arousal’ in rapporto alle mutazioni fisiologiche che possono affiancarsi nell’utilizzo della memoria, ad esempio durante un esame, un corso di studi, un evento significativo e coinvolgente?

Le emozioni e l’attivazione emotiva (l’arousal) al momento del processo di memoria svolgono un ruolo centrale all’interno del ricordo. Si dice in genere che la memoria è stato-dipendente, ovvero che parte del processo di memoria è mediato dalle condizioni ambientali e personali dell’individuo. In altre parole, se ho studiato per l’esame ascoltando della musica, all’esame tenderò ad andare meglio se ascolterò della musica. Questo va inevitabilmente a legarsi con altri aspetti, come quelli emotivi, appunto. Se sono uno che va in ansia durante l’esame e ho studiato in uno stato di totale calma parecchi giorni prima, questa dissonanza andrà a interferire, talvolta anche in maniera radicale, con la mia prestazione. È paradossale, ma coloro che più vanno in ansia agli esami gioverebbero dallo studiare a ridosso della data di esame (in condizioni di ansia/stress simile a quello dell’esame stesso), così da legare l’informazione appresa allo stato emotivo.

Considerando il lato speculare opposto del ricordo che si identifica nell’oblio, richiamate alcune evidenze che vanno nella direzione di un rafforzamento della memoria anche nei suoi dettagli (la citata ipertimesia come condizione patologica), oppure di una “retrospettiva rosea” (ricordare eventi piacevoli e rimuovere quelli opposti, concludendo per un giusto equilibrio tra ricordo ed oblio. Fino a che punto possiamo sforzare la memoria e fino a che punto invece dobbiamo allenarla?

Il concetto di “allenamento della memoria” muta (e un po’ perde) di significato se inquadriamo il ricordo da una prospettiva “predittiva”, perché non stiamo più chiedendo alla nostra mente di fare meglio qualcosa che già fa, ma di fare qualcosa che la nostra mente non vuole fare. Se pensiamo proprio alla retrospettiva rosea – la tendenza ad avere un ricordo positivo o neutro delle nostre esperienze passate –, questa ha un’utilità pratica molto chiara: l’equilibrio psicologico (ovviamente qui si tratta di ricordare a tinte positive eventi come vacanze o viaggi che si sono rivelati sgradevoli, nulla può la retrospettiva rosea nei confronti di eventi che invece hanno altro impatto sulla vita). Probabilmente nessuno vuole ricordare esattamente del brutto viaggio fatto in un certo posto ed è così che un torrido viaggio in treno viene scordato in favore di altri elementi (un bel paesaggio) o rimodulato enfatizzando altre componenti del viaggio stesso. È un processo automatico ed è un processo salvavita. In quest’ottica, se uno vuole, può sempre provare a tenere un diario durante un viaggio e poi provare a trascrivere a distanza di anni cosa si ricorda di quello stesso viaggio. Generalmente, nel secondo caso, il ricordo avrà tinte molto più positive.

Nei processi di conoscenza della realtà e di padroneggiamento dei meccanismi comunicativi siamo rapidamente passati dalla manualità di carta e matita all’utilizzo sempre più intenso delle nuove tecnologie. Questo processo, che imbocca la via della irreversibile digitalizzazione, quali influenze può esercitare sulla dimensione ontologica della memoria? Rischiamo, per colpa delle macchine, che si perda la nostra memoria?

Il rischio non si pone per quanto riguarda l’utilizzo della nostra memoria. Tramite i computer abbiamo molte più informazioni disponibili e questo facilita di molto la nostra vita. I computer vanno a coprire una parte – quella del ricordo preciso – che la nostra memoria non può e non deve svolgere. Purtroppo, siamo abituati ad antropomorfizzare alla cieca un po’ troppe cose, come il computer. Pensare che ciò che avviene al di sotto di tastiere, mouse e dietro agli schermi corrisponda a quello che avviene dentro la nostra testa è molto rischioso, perché è un assunto che non è minimamente supportato. Anzi, sembra proprio l’opposto: l’uomo ha costruito il computer perché facesse qualcosa che lui non è in grado di fare: memorizzare accuratamente le informazioni. Quindi da questo punto di vista no, la nostra memoria non “peggiorerà” perché usiamo i computer, perché le funzioni pratiche delle due memorie – quella tecnologica e quella umana – sono orientate diversamente, al passato la prima e al futuro la seconda.

 


 

DANIELE GATTI, è dottorando di ricerca all’Università degli Studi di Pavia e si occupa di psicologia della memoria.

 

 

TOMASO VECCHI , è direttore del Dipartimento di Scienze del sistema nervoso e del comportamento dell’Università degli Studi di Pavia e coordina il Laboratorio di neurostimolazione cognitiva presso l’Istituto neurologico nazionale IRCCS – Fondazione Mondino.