Il libro di Marco Follini (Via Savoia. Il labirinto di Moro, La Nave di Teseo) gira attorno alla postura classica dell’eroe scespiriano – in questo caso il leader dc – solo di fronte alle decisioni e solo anche di fronte alle avversità. Follini smonta e rimonta in continuazione la quinta teatrale che fa da cornice a questa solitudine problematica. Si tratta di un lavoro eccellente, forte di una sua elegante originalità, sicuramente godibile.

Maneggiare la storia richiede un certo distacco critico per individuare, oltre gli eventi e i personaggi, oltre la stessa storia casualmente ordinata, il filo rosso delle vicende. È un esercizio senza sicurezze dal momento che può anche non approdare a conclusioni incontrovertibili. La fantasia spesso è chiamata a riempire i vuoti.

Perché questa premessa? C’è un motivo semplice, legato in particolare al duplice sentimento di ammirazione e stupore per il coraggio di Follini nel dare alla figura di Aldo Moro quel tipo di profondità che solo l’ambiente del romanzo può rivelare. E solo la fantasia ci regala. Spetta ai critici letterari stabilire se poi di romanzo – e quale – nella fattispecie si debba parlare. In ogni caso “Via Savoia” (La Nave di Teseo) è scritto bene, con sapiente dosaggio di finzione e realtà, in uno stile levigato che illude sulla spontaneità di un linguaggio ben altrimenti elaborato e complesso, frutto di vigilanza sulla propria attitudine alla scrittura.

L’ammirazione riguarda l’elegante impianto stilistico, specie se correlata all’autenticità dello sforzo letterario. Di questi tempi non ci si meraviglia più se dietro la firma dell’autore di un testo si cela l’opera di un scrittore anonimo. Invece, stavolta come in altre significative prove saggistiche, l’autore del libro è proprio lui, Marco Follini, raffinato costruttore di una trama che abbraccia e contempla la politica, effettivamente intrisa di bene e di male, e con il cuore della scena occupato dal martire per eccellenza della democrazia italiana, quale fu il leader della Dc assassinato dalle Brigate rosse.

Poi, in aggiunta, ecco lo stupore: non è un azzardo assoggettare alla descrizione romanzata l’identità di Moro, assegnando alla fantasia il compito di illuminare i contrasti interiori, le speranze e le delusioni, i timori nascosti? Follini si assume la responsabilità di questa più intima rappresentazione e ci invita a prendere confidenza, pagina dopo pagina, con i pensieri e i sentimenti del politico meno incline a toni e maniere confidenziali che l’Italia democristiana abbia mai conosciuto. Moro si svela lucido contraente di un impegno persino involontario, vista l’inclinazione giovanile a coltivare un’aspettativa di carriera universitaria, per andare incontro ben presto, come chiosa Follini, a una vita fatta di “emozione e razionalità”: la vita della politica.

Il racconto gira attorno alla postura classica dell’eroe scespiriano, solo di fronte alle decisioni e solo anche di fronte alle avversità. Follini smonta e rimonta in continuazione la quinta teatrale che fa da cornice a questa solitudine problematica. Ad ogni passaggio vi è un tormento, una percezione dell’insufficienza e della instabilità, un “andare oltre” il contingente; al tempo stesso vi è la rivendicazione di un ruolo e di una responsabilità che l’essere cristiani allega ai compiti della politica; e infine, laboriosamente articolata, vi è un’etica che limita la forza della sicurezza e della convinzione, per un difetto di fiducia sulle umane risorse di bontà. 

E qui spunta il dilemma che ruota attorno alla vicinanza o al distacco rispetto al potere: quali misure e contromisure Moro giustappone ad esso? Quale regola adotta per renderlo agibile moralmente? Nel Consiglio nazionale del partito, il 18 gennaio 1969, le sue parole caddero come macigni su un uditorio a dir poco sorpreso, visto che colpivano al cuore il sistema doroteo: “Ci deve pur essere, più in fondo – disse – una ragione, un motivo ideale, una finalità umana per i quali ci si costituisce in potere ed il potere si esercita”. 

Orbene, a un giornalista che chiedeva se per caso i maligni non sbagliavano a definire Moro un uomo di potere, Corrado Guerzoni, suo stretto collaboratore, rispondeva con un’iperbole: Moro è il potere. In effetti la biografia, anche quella romanzata di Follini, ne rende facile testimonianza. Non si sta al governo del partito e del paese per tanto tempo senza avere dimestichezza con gli ingranaggi dell’amministrazione e tutto ciò che ne deriva in termini di pratiche correnti. A dispetto dei ritratti oleografici, Moro non riduceva la politica a predicazione, ma nemmeno la dequalificava a strumento di comando. Mediazione, equilibrio, prudenza rimbalzano nel racconto di Follini come vocaboli evocativi di un modus operandi di Moro; sono i cardini della sua politica non ideologica e quindi del suo lucido realismo; vocaboli in sostanza che incarnano un dovere che non deprime ma innerva, piuttosto, una strategia di avanzamento democratico.

Il libro traccia un profilo che convince largamente, pur con qualche dubbio secondario. È innegabile che l’uomo si spese, non senza audacia, per ampliare le basi democratiche dello Stato. Questa fu sempre la bussola della sua politica di rinnovamento. Poi lo si può anche definire un conservatore, ma a patto di riconoscere giustamente che in un mondo in cui la conservazione mancava di intelligenza, egli appariva finanche avventuroso. Tanto avventuroso da sentirsi spaesato e avvertire l’impossibilità, per dirla con l’autore, di “dimettersi da se stesso”. E probabilmente, come ancora rileva Follini, si sarà trovato a disagio nell’essere ritenuto un teorico del consociativismo, quando al contrario, dinanzi all’espressione massima del consociativismo rappresentata dal compromesso storico, fu decisamente maldisposto. 

Lascia invece un po’ disorientati il rinvio a quel “troncare e sopire” del Conte Zio, perché serpeggia nella nota locuzione manzoniana un istinto opportunistico alla mitigazione dei contrasti, quale ne sia la ragione e la finalità, laddove nulla di simile o di paragonabile rinviene effettivamente nell’affresco biografico di “Via Savoia”. Moro non era un Conte Zio democristiano. Cauto certamente sì, ma per discernimento e strategia, ovvero per andare avanti e non per sopravvivere nell’immobilismo. Per questo ha pagato un prezzo molto alto.

In ultimo, vale la pena chiedersi se l’immaginazione di Follini non avesse l’obbligo di spingersi più in là rispetto alla consolidata rappresentazione del “caso Moro”. Noi, in verità, non sappiamo a tutt’oggi quale sia stata la mano che ha diretto il colpo di Stato di Via Fani. Ora, un uomo così cauto ed avveduto fino all’estenuazione della manovra politica e minacciato, oltre tutto, dai suoi interlocutori internazionali, al punto di far trapelare la volontà di abbandonare la scena pubblica; come mai quest’uomo accorto cambia la linea di condotta, dismette ogni prudenza e lancia la sfida della cooptazione dei comunisti nell’area della maggioranza di governo? È un buco nero nella nostra conoscenza. E come mai, dopo cinquantacinque giorni di prigionia, pur essendo ormai politicamente morto, lo si vuole morto anche fisicamente, senza pietà? L’accanimento polemico è sulla trattativa mancata o fallita, ma non sul perché sia stato comunque dato dal vertice brigatista l’ordine di eliminazione del prigioniero.

Follini rinuncia a porsi queste domande e spende più volentieri il suo talento nell’illuminare il labirinto degli ultimi pensieri di Moro. Al lettore giunge pertanto il soffio leggero della compartecipazione a uno stato d’animo che solo la scrittura aiuta a penetrare nella spirale di dolore e abbandono. “In quei giorni, in quelle ore, la sua fine dovette sembrargli la fine del mondo. O forse era il segno che quel mondo non era mai davvero cominciato”.

O forse, più semplicemente, che non potesse cominciare a causa del disvolere di occulti decisori.