Non è quasi mai possibile decidere su questioni rilevanti con il principio dell’unanimità. L’Unione Europea è una perfetta testimonianza di questa banale verità. Il guaio è che persevera nell’errore: non perché esso non sia evidente ma al contrario proprio perché è assolutamente chiaro a tutti. Intendo dire, a tutti i governi nazionali. I quali non intendono affatto delegare alla Commissione un potere che essi detengono da sempre e che, nei casi estremi, può esprimersi esattamente col diritto di veto. Ciò naturalmente penalizza il processo di unificazione. Anzi, lo rende improbabile, se non impossibile. E’ la storia di tutti questi anni, e se non si prenderà il coraggio a due mani introducendo il voto a maggioranza sarà la storia anche dei prossimi.

Ma, così continuando, l’UE non decollerà mai.
Se ne è avuta plastica conferma anche nelle scorse settimane. Prendiamo la questione delle migrazioni e la riforma dei famosi Accordi di Dublino. Il progetto della Commissione, che con toni quasi aulici è titolato alla “solidarietà obbligatoria”, in realtà cambia molto poco la realtà consolidata in quanto il principio che impone al Paese di primo sbarco ogni responsabilità, sia di assistenza sia di valutazione delle richieste di asilo dei migranti, non viene intaccato.

Le ricollocazioni di questi ultimi rimangono volontarie (salvo qualche nuovo impegno in capo alle nazioni che non vogliono prendersi in carico alcuno: ma questo dettaglio non rileva nel ragionamento che stiamo svolgendo). E perché rimangono volontarie? Perché quando, nel settembre 2015, la Commissione le rese obbligatorie per un numero limitato di migranti e per un arco temporale triennale diversi Stati non si sforzarono nemmeno per ottemperare a quel teorico ordine, poiché esso non era previsto nei Trattati UE. Accogliere sul proprio territorio un cittadino extracomunitario è una decisione nazionale. Per poter divenire decisione comunitaria bisogna cambiare i Trattati. All’unanimità. Dunque, sul punto i Paesi Visegrad l’avranno sempre vinta. Con grave danno per i Paesi mediterranei. E della solidarietà continentale, ovviamente.

Altro esempio. Next Generation UE, il famoso fondo per la ripresa che per la prima volta propone una mutualità comune europea, deve tradursi in un Programma operativo che deve essere approvato in sede comunitaria. All’unanimità. Bene. La Commissione vorrebbe condizionare l’erogazione dei fondi strutturali dei quali i Paesi Visegrad beneficiano ampiamente da anni al rispetto dei diritti civili, ormai gravemente compromessi in Polonia e Ungheria. Costoro hanno già fatto sapere, in chiaro, che porranno il veto al Programma nel caso venissero bloccati i fondi strutturali loro dovuti. E così i “Paesi frugali” (quelli che non volevano il fondo) han colto la palla al balzo minacciando il loro, di veto, al Programma se i diritti liberali non verranno salvaguardati dal Gruppo Visegrad. Risultato: il rischio paralisi o, più probabilmente, alla fine un compromesso al ribasso trattato dal Consiglio Europeo, ovvero dai singoli governi nazionali.

In uno scenario del genere parlare di Difesa comune o di Politica estera comune appare lunare. Eppure, discutendo di geopolitica al Consiglio Europeo di questi ultimi giorni, i capi dei governi avranno compreso facilmente che un’Europa divisa dai veti reciproci continuerà a contare poco, molto poco, nel contesto mondiale. Solo l’ottusità nazionalista impedisce loro di tradurre la comprensione in azione politica. Ma proprio questo è il problema dell’Unione.