A questo punto dobbiamo affidarci alla logica. Supponiamo che la pregiudiziale riguardante la guida del governo, con la conferma di Conte, sia insormontabile. E supponiamo altresì che la pressione di Salvini faccia breccia nei cuori dei grillini per ragioni – diciamo così – imperscrutabili. Allora si dovrebbe supporre che identica pregiudiziale dovrebbe valere se dovesse riaprirsi il forno gialloverde. Ma dopo le dichiarazioni di Conte, per il quale l’esperienza con Salvini è una pagina definitivamente archiviata, come si può immaginare che non valga a destra ciò che vale a sinistra, ovvero che a dispetto di tutto e di tutti si possa formare nuovamente un governo Lega-M5S, pur con il Presidente del Consiglio attestato su questa posizione di assoluta intransigenza?

Secondo logica, appunto, uno scenario ribaltonista che lasci a secco il faticoso dialogo con il Pd e rimetta in auge la precedente formazione governativa, magari con qualche aggiustamento “a latere” dell’oggetto del contendere, dovrebbe essere esclusa in maniera categorica. Questo dice un pensiero minimamente ordinato a fronte della singolare conduzione della crisi. È possibile che diventi regola un guazzabuglio di motivazioni altalenanti e contraddittorie? Anche la piattaforma Rousseau faticherebbe a identificare un algoritmo capace di giustificare l’ingiustificabile. Molti osservatori sono guardinghi, avvertono l’asfissia che attanaglia l’articolazione del ragionamento politico.   Figuriamoci allora come potrebbe reagire la pubblica opinione, anzi – per essere più chiari – come già inizi a reagire.

La questione della conferma di Conte non è di secondaria importanza per il Pd. La resistenza di Zingaretti è comprensibile. Certamente la svolta apparirebbe sbiadita, fino al punto di configurarsi, agli occhi dell’elettorato e della base del partito, alla stregua di una beffa. Tuttavia, sempre a fil di logica e con il realismo necessario, il veto sul premier uscente sconta il fatto che a pagare il prezzo della “rivoluzione parlamentare” sarebbe proprio l’artefice più diretto ed esplicito dell’inversione di rotta realizzata dopo appena 16 mesi dall’apertura di questa complicata legislatura. Conte ha avuto la forza, comunque, di mettere con le spalle al muro il suo ministro dell’Interno, inscenando nell’Aula del Senato una vera e propria requisitoria. Non si può far finta che il gesto non abbia pesato sulla rappresentazione nuda e cruda della fine di un ciclo politico.

Spetta dunque al segretario del partito più esposto, al quale s’indirizza la polemica di una destra ormai inferocita, prendere il coraggio a due mani. Può tenere il punto, non senza ragioni, ma così facendo rischierebbe di far saltare la soluzione della crisi, spalancando le porte a elezioni quanto mai ostiche – con quale schema, infatti, si dovrebbero affrontare? – o addirittura alla inusitata ricomposizione della vecchia maggioranza. È una decisione, quella che Zingaretti dovrà assumere nelle prossime ore, che solo gli incoscienti possono pretendere di maneggiare con l’ostentazione di ingenue sicurezze. Alla fine, però, se si vuole mandare all’opposizione Salvini, anche il sacrificio di una pallida discontinuità, certo insoddisfacente per il popolo della sinistra, può e deve essere sopportato in nome di una esigenza politica prioritaria. Anche Ciriaco De Mita, valutando l’emergenza  del momento, ha auspicato il varo del governo M5S-PD. Se fallisse, sarebbe un guaio.

P.S. Avevamo ipotizzato in un precedente articolo che   il veto potesse rafforzare alla lunga il ruolo di Conte. Sembrava che il M5S non si sbracciasse in difesa del suo premier. Evidentemente gli ordini della Casaleggio Associati hanno determinato una rapida correzione di tiro. Dunque, senza attendere scadenze lontane, fin da subito si acclara l’aumento d’incidenza e peso politico del premier dimissionario.