L’unico dato inoppugnabile è che la crisi non è stata risolta dal voto della scorsa settimana. Come pure inoppugnabile è un certo incauto procedere, essendo chiaro che i messaggi ripetuti all’infinito, per i quali l’alternativa al governo Conte sarebbe solo il ricorso anticipato alle urne, non mordono la realtà della politica. Prima era evidente a pochi, adesso lo è a molti. Si cerca di recuperare un barlume di razionalità dopo giorni di polemiche incandescenti a cavallo della sfibrante e inutile verifica parlamentare.

D’altronde l’idea che una maggioranza si sfasci e dopo essersi sfasciata ambisca, nella sua versione rattrappita, a rivolgersi all’elettorato con speranza di successo, rientra nelle fantasticherie di leadership in affanno, senza un’adeguata percezione degli umori del Paese. Salvo miracoli, la scelta di far saltare il banco regalerebbe alle forze dell’opposizione lo spazio per una più che prevedibile affermazione elettorale. Poi, sulle conseguenze ci si può facilmente intendere, anche per i rischi di radicalizzazione. Dal Portogallo, chiamato ieri a scegliere il Capo dello Stato, viene un segnale inquietante: l’impennata dei consensi all’ultra destra.

Ecco, allora, che alle minacce deve subentrare la capacità di ascolto. In vista del confronto in Aula sulla relazione del Ministro Bonafede, con la vexata quaestio della prescrizione ancora aperta, parrebbe cosa logica la ripresa del dialogo con Renzi. Spetta a Conte decidere la modalità. A lui non sfugge che il tentativo di allestire un gruppo di transfughi e mettergli un cappello di autenticità, si è rivelata un’impresa avventurosa. E tale rimane in assenza di ragionamenti politici.

In effetti, Conte avrebbe dovuto dimettersi all’inizio della crisi – questa nostra testata lo aveva suggerito – invece di addentrarsi nel labirinto di sfide e controsfide. Tant’è che oggi, verificata la precarietà degli esiti, non manca una diffusa preoccupazione. In realtà, se non si materializza a breve giro il soccorso dei cosiddetti responsabili, s’impone al Presidente del Consiglio l’onere di rassegnare il mandato nelle mani di Mattarella. Lo stesso Di Maio ha messo un limite, quello delle prossime 48 ore, a tale ondeggiare tra baldanza e pessimismo che logora il quadro di governo. Non c’è dubbio che una nuova prova di forza in Parlamento si presenta a questo punto come la più arrischiata delle scelte a disposizione. 

Il tunnel delle dimissioni, anche se finora ostico agli occhi di Conte, può restituire dignità e nitore a una vicenda che nasconde pur sempre molte incognite, ma non per questo autorizza la rincorsa delle parti in conflitto alla posizione più appariscente e tuttavia più incongrua. Naturalmente il passaggio al Conte ter non è automatico, dipende in larga parte dalla robustezza di un disegno politico. È più ragionevole puntare a un “restauro creativo” della maggioranza pregressa piuttosto che inventare un’apposita anagrafe per alcuni parlamentari senza fissa dimora. Il centro europeista, saldo nei principi e forte nei programmi, richiede una complessa ritessitura nella società civile. Ogni combinazione opportunistica condotta all’interno del Palazzo ne svilirebbe la funzione potenzialmente rigenerativa del sistema politico italiano. Si tratta di un processo che esige rigore e pazienza, non la sbrigatività di un coagulo trasformistico.