Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Flaminia Marinaro

«Cosa ti piacerebbe che fosse inciso sulla tua lapide?». Gorbačëv è seduto di fronte a lui. La sedia è piccola, insufficiente per la sua stazza. È cambiato dai giorni della perestrojka e del glasnost; anche quella macchia scura sul cranio sembra sbiadita. Colpisce il suo sguardo, carico di bontà ma fermo sugli occhi di Herzog. Li scruta con i suoi, immobili e intensi. «Ci abbiamo provato!» è la risposta.

Così comincia Herzog incontra Gorbačëv (2018), diretto da Werner Herzog e André Singer, nelle sale italiane dal 19 al 22 gennaio. Un film potente che si sottrae agli stereotipi del documentario storico indagando l’uomo prima ancora che il politico e mantenendo, per tutta la durata, una tensione emotiva a tratti commovente. Werner Herzog, forse il più rappresentativo esponente del Nuovo cinema tedesco senza indulgenze scava nella vita pubblica e privata di Gorbačëv. Lo fa con difficoltà, tra un ricovero e l’altro in ospedale, tra una degenza e un set in ambulanza. 

È un uomo provato Michail, a 87 anni vive solo a Mosca, non vuole pesare sulla quotidianità di sua figlia Irina e gli si velano gli occhi quando parla di Raisa, delle sue ultime ore, di quando ha sentito le sue mani diventare gelide tra le sue. «Se n’è andata così, con me, perché quel giorno sono morto anch’io», scandisce lentamente senza distogliere lo sguardo dalla telecamera. 

Herzog è teso, nonostante la sua enorme esperienza, il personaggio Gorbačëv è complicato. Chi ha davanti a sé? Un vincitore che ha cambiato le sorti del mondo oppure un grande sconfitto? Su questo dilemma, che ha diviso il popolo russo e non gli ha reso giustizia, è costruito il film che intreccia interviste, reportage, visioni e intuizioni di una delle personalità più carismatiche del ventesimo secolo.

Non c’è una risposta netta — risponde il regista al «L’Osservatore Romano» — «sarebbe uno scenario da western, dove c’è un cattivo contrapposto ad un eroe solitario, ma la Storia non funziona così, non sappiamo come questa lo giudicherà, ma certamente verrà considerata la grandezza della sua figura storica, in tutta la sua umanità di uomo veramente molto buono. In ogni momento del film si percepisce un essere umano di grande profondità, capace di notevole visione politica, e credo per aver creato le condizioni per l’inevitabile». 

L’unica colpa di Gorbačëv, nella prospettiva limpida dei registi, è di aver intuito che l’Unione Sovietica ormai esisteva soltanto sulle mappe. Di aver saputo leggere nell’animo delle persone, di aver voluto rispondere agli appelli disperati per l’indipendenza. 

Sfilano, volutamente senza un ritmo cronologico, le immagini della catena umana che attraversa Estonia, Lituania e Lettonia, la caduta del muro di Berlino, il disastro di Černobyl’, il vertice di Reykjavik, l’epilogo di quella che è stata la guerra fredda.

Si sovrappongono le testimonianze di Shultz, segretario di Stato degli Stati Uniti sotto la presidenza Reagan, di Lech Wałęsa, leader di Solidarność, di Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990, e di altri che rendono la ricostruzione completa. 

La storia è chiara, probabilmente era già scritta e Gorbačëv l’ha resa pubblica, trovando la chiave giusta per cambiare la politica senza dissolvere il tutto, a partire dalla stessa Russia che avrebbe rischiato di frantumarsi in una miriade di micronazioni. In questo senso lo definisco «una figura tragica» — continua il regista — «perché è tragico che proprio i suoi compatrioti lo abbiano percepito come un personaggio negativo, ma questa percezione sta cambiando».

L’intervista è quasi conclusa, è andata meglio del previsto. La sintonia è stata immediata, non è soltanto un documento prezioso per Herzog, ma un atto di riconoscenza. Lo sottolinea più volte, sente di avere lo stesso background, lo stesso retroterra di povertà; anche lui è cresciuto senza acqua corrente né telefono e nessun altro strumento di civilizzazione avanzata. Un contesto non facile da decifrare per un bambino. Quell’uomo granitico e risoluto è stato uno degli artefici della riunificazione della Germania e questo, per uno come lui, ha un valore inestimabile. E ora, vecchio e impassibile, si innesta ancora di più nel suo puzzle personale e nella sua visione del mondo. 

In un faccia a faccia di oltre un’ora e mezza ogni domanda ha trovato risposta, anche quelle più difficili come la battaglia alle armi nucleari, di fronte alla quale non trattiene la rabbia per non essere riuscito nella strategia che aveva iniziato con Ronald Reagan. Conclude con l’ultimo giorno della sua Presidenza, anche su quello non si sottrae dal rispondere. È un peso che sembra piegarlo ancora.

Lo sguardo è assente mentre ricorda quell’ultima vacanza in Crimea, ma poi punta il dito e incalza. «È stato un colpo di stato. Hanno detto che ero malato ma la storia la conoscete. Quando tornai avevano organizzato uno show mediatico, mi chiesero di firmare in diretta, di fronte all’intera popolazione. Rifiutai e firmai prima che si accendessero le telecamere».

«Si pentì di quelle dimissioni?» è l’ultimo interrogativo del regista. «Me ne pento ogni giorno» risponde.