Cosa c’è dietro la crisi umanitaria ai confini bielorussi

 

Tra i vari aspetti della questione bielorussa, merita di essere esaminato il rischio connesso al “Suwalki gap”. Si tratta di un corridoio di confine lungo 104 km e largo 65 fra Bielorussia e Kaliningrad, enclàve russa sul Mar Baltico, che separa Lituania e Polonia prendendo il nome da una vicina cittadina polacca (Suwalki appunto). Queste poche miglia sono da molti generali americani considerate il ventre molle dell’Alleanza Atlantica in Europa. È l’unica via infatti di accesso terrestre della UE a Lituania, Lettonia ed Estonia.

 

 

Enrico Farinone

 

Alexander Lukashenko è ben consapevole di giocarsi il proprio potere con l’azzardo che ha posto in essere utilizzando quale inconsapevole esca la povera umanità migrante fatta ammassare ai confini con la Polonia. Il dittatore bielorusso confida nella protezione offertagli da Vladimir Putin, dal quale pure sa di non essere particolarmente stimato, in ragione dei concreti interessi regionali che la Russia vuole ad ogni costo tutelare nel suo ormai lunghissimo contenzioso, a volte sotterraneo a volte invece ben evidente, con l’Unione Europea. Che la crisi si manifesti ai confini della nazione oggi più lontana dai valori fondanti la stessa Unione e dalla linea politica di Bruxelles è un dato di estremo interesse per il Cremlino.

È però opportuno riavvolgere brevemente il nastro, per comprendere meglio le ragioni della crisi, risolta in tragedia per tanti infelici e incolpevoli esseri umani.

L’idea originaria di Putin – coerente con la sua ossessione maggiore, ovvero evitare che i paesi cerniera fra Russia e occidente già parte dell’Unione Sovietica si integrino definitivamente nella UE (come già accaduto per quelli baltici) o addirittura entrino nella NATO – era di creare una “unione di stati”, di fatto uno Stato unico, fra Russia e Bielorussia. Dal punto di vista geografico la vasta pianura che costituisce il territorio di quest’ultima offre una protezione di centinaia di chilometri assai importante a giudizio degli strateghi militari del Cremlino. Non solo.

Un corridoio di confine lungo 104 km e largo 65 fra Bielorussia e Kaliningrad, enclàve russa sul Mar Baltico, separa Lituania e Polonia prendendo il nome da una vicina cittadina polacca, Suwalki. Queste poche miglia sono da molti generali americani considerate il ventre molle dell’Alleanza Atlantica in Europa. Esse potrebbero venire occupate dai russi in poche ore, isolando così i tre paesi baltici e le truppe NATO ivi stanziate. Il “Suwalki gap”, come è stato chiamato, è infatti l’unica via di accesso terrestre della UE a Lituania, Lettonia ed Estonia.

Anche per questa ragione, evidentemente, la Bielorussia interessa molto al Cremlino. La suggestione unificatrice però non ha mai convinto Lukaschenko: sia perché, e non è difficile a capirsi, il suo ruolo si ridurrebbe a quello del mero vassallo, essendo Minsk completamente dipendente da Mosca in ogni settore, a cominciare da quello energetico. Sia perché la popolazione, memore dell’occupazione sovietica, in linea generale rifiuta anche solo l’ipotesi dell’unificazione.

Putin negli anni ha dunque dovuto ripiegare, senza però mai riporre completamente nel cassetto una soluzione che egli continua a ritenere utile. Attendendo pazientemente l’occasione buona per liberarsi dal dittatore recalcitrante per sostituirlo con qualcuno meglio disposto nei suoi confronti. La ribellione popolare dell’estate 2020 contro le elezioni farsa del 9 agosto che hanno rinnovato il mandato presidenziale a Lukaschenko, e la successiva feroce reazione di quest’ultimo hanno però mutato il quadro, costringendo Putin ad un sostegno a denti stretti al collega bielorusso, ben consapevole che se non domata la rivolta delle piazze avrebbe alla lunga condotto quel Paese nelle braccia dell’Europa.

Un sostegno, però, condizionato. Lo si è visto bene quando Lukaschenko ha minacciato l’Europa di bloccare le importanti forniture di metano russo che transitano dal suo territorio ricevendo un assai eloquente “niet” da Mosca, ovviamente attenta a non pregiudicare la sua maggiore fonte di reddito e di commercio, oltre che rilevante strumento di pressione nei confronti degli europei.

Indebolito sul piano interno nonostante la repressione attuata, isolato a livello internazionale e quindi costretto a ricercare la protezione dell’ingombrante vicino che non lo ama e lo tiene sotto stretto controllo, Lukaschenko ha dapprima ritenuto indispensabile provare al mondo quanto il suo potere fosse solido: a questo serviva la manifestazione di forza, in realtà di protervia, dello scorso 23 maggio quando il volo commerciale Ryanair sul quale era imbarcato un giornalista inviso al regime venne costretto ad atterrare a Minsk. E successivamente, a fronte delle proteste e delle conseguenti sanzioni adottate dall’Unione Europea, ha pensato di utilizzare meschinamente la carta dei migranti mediorientali, consapevole di quanto essi siano un problema per i governi occidentali. Dichiarando che non avrebbe più impedito l’attraversamento dei confini bielorussi ai migranti desiderosi di approdare in Europa. Attivandosi poi in tal senso, facendone arrivare via aereo in territorio bielorusso per poi ammassarli, come fossero cose senz’anima, con pieno disprezzo di ogni umana pietà, ai confini polacchi. Persone alla ricerca di un minimo vitale, incolpevolmente imprigionate in una morsa politica della quale nulla sanno, e nulla sapranno mai.