Per gentile concessione dell’autore, Guido Formigoni, pubblichiamo un ampio stralcio di questo articolo che è apparso nei giorni scorsi su www.c3dem.it, sito online del gruppo “Costituzione Concilio e Cittadinanza. Per una rete tra cattolici e democratici”.

C’era da aspettarselo. Dopo il faticoso ma fondamentale verdetto delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, alcuni protagonisti nostrani hanno lanciato un messaggio inequivoco sulle conseguenze di tali vicende per noi, progressisti europei e italiani: ci vuole un candidato moderato, si vince al centro, e quindi è addirittura il caso di rinverdire la «terza via» degli anni Novanta. Si è distinta in questa iniziale campagna (che ci accompagnerà per qualche tempo) la nuova versione di «Repubblica» made in Fiat, seguita a ruota da Renzi e da altri epigoni di quella vecchia vicenda. Credo fortemente che questi slogan siano frutto di un’incomprensione radicale di quanto avvenuto Oltreoceano; e inoltre di una sottovalutazione drammatica delle condizioni delle nostre democrazie in questo periodo di crisi (ideologica, economica e sanitaria).

Il primo tema. Si potrebbe semplicemente dire che sarebbe ridicolo attribuire (per differenza) la sconfitta di Hillary Clinton nel 2016 a un presunto estremismo. Ma soprattutto il punto è un altro: l’onesta, centrista, prudente, «normale» candidatura di Biden è stata sollevata fino alla vittoria da una mobilitazione complessa, che ha avuto bisogno di molteplici componenti e protagonisti, compresi soprattutto quelli più radicali. Il dato è evidente: possiamo dire con qualche certezza che i democratici non hanno strappato quasi nessun voto «moderato» ai repubblicani rispetto a quattro anni prima. In effetti a livello complessivo Trump non ha perso voti, ma li ha fortemente aumentati, passando da 63 a 74 milioni di voti. Nonostante il carattere tutt’altro che moderato della sua politica e l’approccio divisivo del suo personaggio. Biden è riuscito a vincere solo – a sua volta – con un enorme passo avanti: dai 65 milioni di Clinton agli attuali 81 milioni. L’affluenza è salita di un mostruoso +11%, in un paese dove le difficoltà a registrarsi, il farraginoso sistema (per cui negli Stati «sicuri» per uno dei due partiti, gli oppositori spesso nemmeno pensano di votare) e il disinteresse di molti hanno sempre tenuto basse le affluenze. È successo qualcosa di simile anche nei cruciali tre stati in cui la Clinton aveva lasciato la posta quattro anni fa (Wisconsin, Pennsylvania e Michigan), perdendoli per meno di centomila voti complessivi, nonostante il vantaggio nel collegio elettorale nazionale. Biden ha vinto il Wisconsin per 20.000 voti, ma con 500.000 elettori in più del 2016; in Michigan 150.000 voti in più per Biden, raccolti tra 700.000 nuovi elettori. E potremmo continuare in questo senso.

In breve: Biden ha vinto sull’onda di una mobilitazione straordinaria, in cui hanno contato molto anche i movimenti come Black Lives Matter, i giovani simpatizzanti del socialismo di Sanders, le pattuglie ecologiste, le comunità degli immigrati, che hanno fatto registrare e condotto a votare molte più persone. Quindi non ha vinto per la sua immagine moderata, ma per la capacità di tenere assieme un fronte ampio, capace di contrapporsi alla fortissima radicalizzazione dei repubblicani, incentivata da Trump, che appunto non è stata affatto negativa per il presidente uscente, anzi: non gli è bastata, ma è stata efficace in termini di consenso. Il paese è oggi drammaticamente diviso e polarizzato, certo, e questo è un problema che Biden ha mostrato di voler affrontare nei suoi primi discorsi post-elettorali. Ma è del tutto evidente che se le logiche ricompositive non dovranno mancare (anche per il mancato controllo democratico del Congresso), Biden non potrà cogliere i frutti della vittoria solo sul terreno di una prassi accomodante e bipartisan. Dovrà invece essere soprattutto capace di esprimere una guida saggia e articolata dell’arcobaleno di forze che l’ha sostenuto, per valorizzarne ogni elemento nel modo più efficace. Pena una débacle storica e la mancanza della capacità di costruire un nuovo ciclo politico.

Di qui il secondo aspetto. Se il tema delle sinistre «moderate» e riformiste poteva avere un senso quando negli anni ’90 si iniziava a fare i conti con la globalizzazione e si pensava ancora di poterne gestire riformisticamente gli effetti, oggi il quadro globale è totalmente diverso. La crisi del 2008 ha spazzato via la fiducia ingenua nei benefici complessivi del nuovo assetto globale. Si è chiaramente compreso che gli effetti del nuovo sistema internazionale sono stati ambivalenti: se c’è stata una straordinaria uscita della povertà di una parte del mondo sottosviluppato, il prezzo è stata la crescente diseguaglianza nei paesi ricchi, con l’impoverimento (reale, proporzionale o fosse anche solo simbolico) e la conseguente frustrazione del ceto medio e delle élites popolari rispetto a un piccolo manipolo di privilegiati favoriti dalla finanziarizzazione del sistema. Non a caso, proprio questi perdenti del nuovo ciclo storico sono stati negli ultimi anni il fulcro e il perno delle rivolte populiste e sovraniste, a partire dal trumpismo. Che le destre si siano radicalizzate anche in Italia e in Europa è sotto gli occhi di tutti (con le particolarità di ogni paese, certo), addirittura di coloro che (sbagliando) rivalutano ora il Berlusconi «statista moderato» rispetto alla sguaiatezza dei suoi successori. La crisi pandemica sta accelerando drammaticamente la china di queste vicende: ci sono vincitori e perdenti anche all’ombra dei lockdown e delle mascherine anti-covid.

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