Dietro l’angolo

Riflessioni minime di inizio d’anno

Chiedeva una volta un noto conduttore televisivo ai suoi intervistati: “che cosa c’è dietro l’angolo”? 

Tra tutti coloro che si cimentavano nella risposta solo in pochi ci hanno poi veramente azzeccato, parecchi non sono neppure stati in grado di prevedere le proprie faccende personali.

Questo dimostra che non tutto dipende dalla volontà e che lo stesso destino si fa spesso beffe persino del più acuto discernimento critico.

Non c’è una scienza esatta della previsione: non parlo della meteorologia e neppure dei terremoti, mi riferisco- e mi basta – ai comportamenti umani.

Si è chiuso un “annus horribilis” ma nessuno può scommettere che quello che si apre possa essere un “annus mirabilis”.

La pandemia reca il senso nel suo nome: pan (tutto) demos (popolo): penso che si stia vivendo l’aspetto più devastante di una insensata globalizzazione, il flagello planetario la spiega in tutti i suoi volti negativi e irrazionali.

A cominciare dal conflitto progresso-natura: pare che quasi tutto nasca da lì.

Impossessarsi del proprio futuro è un’utopia millenaria: chi interrogava le stelle, chi scrutava la sfera di cristallo, chi si affidava ai riti propiziatori, chi declinava ogni auspicio nella scaramanzia.

Immaginare: ultima e gratuita frontiera della libertà, aquilone del pensiero cui affidare sogni e speranze, fantasma di amori e di paure.

Sottratto troppo spesso al rapporto diretto con la natura – che è fonte di ispirazione e maestra di verità – manca all’uomo di oggi il respiro della gratuita immaginazione: sembra che tutto sia vincolato, quasi prigioniero dei luoghi comuni che si impossessano della nostra anima.

Trovo che l’umanità sia come incanalata in un gigantesco imbuto dove prevalgono risposte scontate: la prima, la più sconcertante, è quella che riguarda quasi tutte le nostre scelte, persino le più apparentemente banali. 

Spesso, in ogni contesto e situazione, ci viene ossessivamente insegnato che cosa ‘dobbiamo’ fare e la vita diventa la trama di un copione già scritto da realizzare ad ogni costo, segnando ogni contatto della nostra presenza senza il pudore di una saggia e prudente misura delle cose.

Oggi è tutto ultimativo: quello che facciamo, che dobbiamo fare e che faremo.  “Si deve”: punto e basta.

Ma dietro ad ogni angolo ne scopriamo un altro e poi un altro ancora, fino alla fine: non importa fermarsi e guardarsi intorno, non è mai il tempo di dare la mano in modo amichevole alla vita.

Programmare il futuro, svoltare l’angolo e scoprirlo già noto, anticipare gli eventi, lasciare una traccia del nostro passaggio, accanirsi in modo maldestro contro gli altri per migliorare se stessi.

Credo che avremmo il dovere di ritornare ogni tanto spiritualmente bambini.

Ricordo che da piccolo qualcuno mi aveva insegnato a lanciare i sassolini in mare facendoli saltellare sul pelo dell’acqua: si cercavano quelli sottili, piatti e poi di scatto, assecondando il tiro con un gesto sapiente, si scagliavano di lato cercando il maggior numero possibile di rimbalzi sulla superficie, fino a vederli scomparire, terminata la loro breve corsa. 

Oppure si scrivevano i nomi e le parole sulla sabbia, calcando con il piede in modo che resistessero alle onde e tracciandoli così profondamente da sperare di ritrovarli l’indomani.

Ma non restava nulla: i sassi inghiottiti per sempre, le impronte cancellate.

Erano le prime gare con la vita, nell’ingenuità di quegli anni di infanzia, e quegli inconcludenti passatempi sembravano invece epiche imprese, riuscivano a divertirci e a farci sognare.

Poi – a poco a poco – ho cominciato a vedere il mare e la vita con occhi diversi, a occuparmi delle cose ‘veramente importanti’, a dare retta agli altri: in molti facciamo reciprocamente a gara nell’essere maestri di verità, peccato che nessuno ci abbia ancora insegnato – o che noi abbiamo finalmente imparato- ad essere veramente felici.

C’è sempre un angolo da scoprire, una svolta che sarà epocale, un’impronta da lasciare. 

Torno spesso sulla riva del mare che non trovo cambiato: è lì e quasi mi deride perché dei due chi ha perso più scommesse sono io, non so come è andata ma credo che sia un sentimento che provano in molti, quando si siedono – soli – sulla riva e ascoltano il suo irriverente sciacquio.

Lo osservo intensamente e mi vengono in mente le parole di Claudio Magris, quando descrive il mare come grande prova dell’anima: “L’epico mare insegna la libertà di riconoscersi sconfitti, pur lottando: libera dalla smania di affermazione e di vittoria che è segno dell’ossessione di impotenza. E quel fulgore talora troppo intenso è puro invito ad abbandonarsi, a dormire: quella grande acqua spegne la sete, aiuta a capire che non è poi troppo tragico se la risacca cancella le orme sulla spiaggia”.