Il lavoro da casa rappresenta un nuovo paradigma. Infatti, se non è rimasto molto tempo per porre rimedio ai danni ambientali, come si può immaginare una società che si muove alla velocità di prima? Non sarebbe più utile spostare le immagini e i dati invece di spostare le persone?

Lo smart working o lavoro agile – nome ormai diffuso nel contesto italiano del lavoro – è un lavoro condotto in un regime di flessibilità spazio-temporale, che di fatto ci permette di superare l’organizzazione standardizzata e del paradigma fordista. Una teoria che aveva come base il taylorismo, sistema di organizzazione scientifica del lavoro, elaborato all’inizio del Novecento dall’ingegnere statunitense Frederick W. Taylor (1856-1915), che la applicò nell’industria metallurgica Bethlehem Steel Co. e la illustrò in alcuni importanti scritti. Essa si fondava sul principio che la migliore produzione si determina quando a ogni lavoratore è affidato un compito specifico da svolgere in un determinato tempo e in un determinato modo.

La diffusione del computer e di Internet durante la seconda metà del secolo scorso hanno permesso di affermare la flessibilità  come principio chiave nelle economie avanzate. Nel periodo più recente la tecnologia, causa virus, ha favorito procedure che “saltano” il lavoro in presenza, consentendo comunque di lavorare a distanza. 

Si afferma, così, una nuova flessibilità spazio-temporale giustificata dallo stato di emergenza che supera la normativa sull’accordo individuale e disegna categorie non più professionali ma personali. Anche se il mondo del lavoro aveva già iniziato a mutare ben prima della pandemia da Covid-19. Già da tempo, infatti, alcuni trend di lungo periodo, quali l’evoluzione demografica e le crescenti preoccupazioni di stampo sociale per le disuguaglianze e la sostenibilità del pianeta, stavano cambiando il modo di lavorare e lo stesso luogo di lavoro, con inevitabili conseguenze sulle prestazioni dei dipendenti.

Gli eventi del 2020 hanno solo accelerato e amplificato questi mutamenti. Molte professioni che non si ritenevano «telelavorabili» lo sono diventate, facendo crollare i tassi di CO2 e rendendo l’aria delle grandi metropoli respirabile, impattando, spesso in maniera positiva sui risparmi delle famiglie e delle aziende e favorendo una migliore qualità della vita. Vista questa trasformazione in atto, il mercato del lavoro ha iniziato a modificare  i contratti collettivi. Ne sono un esempio quello dell’industria e delle telecomunicazioni che hanno prodotto norme importanti, finalizzate a indirizzare la contrattazione aziendale in funzione di bilanciamento fra esigenze tecnico organizzative aziendali ed esigenze di conciliazione degli addetti. 

Quello che risulta estremamente evidente dagli accordi perfezionati in questi mesi, è che lo smart working è divenuto un modello di organizzazione di lavoro strutturato o in via di rapida strutturazione, e non più, come nel periodo pre-Covid, un’esperienza limitata e qualificabile come benefit e come tale rivendicato nelle piattaforme. Questo anche perché si assiste ad una maggiore predisposizione e soddisfazione degli individui ad organizzare la propria attività lavorativa in forma autonoma ed estremamente personalizzata. Infatti, l’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano considera questa trasformazione come paradigmatica e definisce il lavoro agile come una «filosofia manageriale» complessiva volta a dare autonomia di spazi, orari e strumenti al lavoratore in cambio di una responsabilizzazione sui risultati. Tutto ciò, unito al fatto che una parte della prestazione si possa svolgere in luoghi e tempi diversi da quelli «ordinari», induce a porsi delle domande fondamentali.

La prima è quella individuata dal sociologo Manuel Castells.
Se con lo smart working si può lavorare da qualsiasi posto del mondo, e lo stesso vale per lo studio con la didattica a distanza, perché restare in città inquinate e costose dove è difficile crescere i propri figli? In soli dodici mesi, lo smart working è riuscito a svelare le criticità di un modello di sviluppo fondato sull’esclusiva presenza fisica e sulla concentrazione degli uffici nel cuore delle città. L’esodo quotidiano da aree interne a città e da periferie a centri storici è assurdo, inquinante, antieconomico.

Vari sono perciò i temi, tutti fondamentali, specie in questa fase di campagna elettorale amministrativa. È necessario affrontarli, con serietà, date le sfide ambientali e amministrative che il nuovo mondo ci prospetta. Perché, se come abbiamo sentito dire da più parti non è rimasto molto tempo – appena dieci anni – per porre rimedio ai danni ambientali, come si può immaginare una società che si muove alla velocità di prima? Non sarebbe più utile spostare le immagini e i dati invece di spostare le persone? Perché voler ritornare al secolo scorso e non approfittare delle possibilità che questo mondo ci offre? Perché non sfruttare un’opportunità formidabile come questa, per  il benessere del lavoratore, per la sostenibilità ambientale, per la conciliazione vita-lavoro?

Tutte domande lecite, ma la politica fatica a gestire una nuova normativa in tal senso; sembra non essere adeguata, forse per l’età mediamente alta dei nostri politici, o forse perché non si conoscono particolarmente bene i meccanismi che regolano questo nuovo millennio. In definitiva, così non si riesce a dare risposte alle future generazioni che poco hanno a che fare con i meccanismi di un tempo ormai passato.