Per gentile concessione riportiamo questo articolo che appare nell’edizione del 15 novembre del foglio ufficioso della Santa Sede. L’idea alla base del documentario, ricorda l’autore, “era di Giovanni Di Capua, la sceneggiatura di Italo Alighiero Chiusano, la regia di Giovanni Fago e la consulenza storica di Gabriele De Rosa, che di Sturzo — interpretato con misura e partecipazione da Flavio Bucci — fu amico, e sul quale ha scritto molto”.

È classico ed eterogeneo, lo sceneggiato Don Luigi Sturzo, che quarant’anni fa (il 10 dicembre del 1981) iniziava il suo viaggio in tre puntate su RaiUno. L’idea era di Giovanni Di Capua, la sceneggiatura di Italo Alighiero Chiusano, la regia di Giovanni Fago e la consulenza storica di Gabriele De Rosa, che di Sturzo — interpretato con misura e partecipazione da Flavio Bucci — fu amico, e sul quale ha scritto molto.

È classico perché, in linea con la lunga stagione degli sceneggiati Rai, impasta essenzialità e densità verbale, rigore filologico e dialoghi materici pregni di informazioni, dal peso specifico abbondante, impegnativo. È consueto per l’assenza di divagazioni dal cuore del soggetto, in questo caso dal nucleo spirituale e politico del personaggio. Lo è per l’avanzare didascalico della narrazione in funzione didattica, educativa, consapevolmente scolastica. È eterogeneo, invece, perché nella sua terza parte smonta le scenografie della finzione e abbandona i costumi e gli interni d’epoca – anche un po’ spiazzando – per aprirsi alla forma del documentario.

Nel raccontare l’ultima fase della vita e dell’attività del sacerdote fondatore del Partito Popolare Italiano nel 1919, infatti, quella che va dalla seconda guerra mondiale al suo rientro in patria nel 1946 dopo l’esilio a Londra e in America, fino alla sua morte nel 1959, Flavio Bucci smette l’abito talare e veste panni borghesi. Lo fa leggendo, tra le mura e i giardini del convento delle Canossiane a Roma – dove Sturzo visse dal rientro in Italia fino ai suoi ultimi giorni – lettere e pensieri di questo fondamentale e straordinario prete siciliano. La voce dell’attore si accompagna a quella narrante spalmata sopra immagini di repertorio in bianco e nero: un tappeto di volti e di paesaggi umani su quel delicato momento storico; ma entrambe si sospendono per lasciare posto ad altri documenti: alla lettura delle parole di Aldo Moro per la commemorazione di don Sturzo al Teatro Eliseo, il 24 settembre 1959; alle interviste a Giulio Andreotti – sul rapporto tra Sturzo e De Gasperi – a Guido Gonella e allo stesso Gabriele De Rosa, che riassume e commenta, nei minuti finali del programma, i tre episodi dello sceneggiato dedicato a questo presbitero la cui scelta della via politica era legata all’essere – ricorda lo storico – «un prete del pontificato di Leone XIII: uno di quelli che uscivano dalla sagrestia per accostarsi alla società civile». 

Nel primo episodio si fa più volte riferimento all’enciclica Rerum novarum dello stesso Leone XIII e viene mostrato il discorso tenuto da don Sturzo a Caltagirone nel 1905, per le elezioni comunali: sono le parole di un programma e di un pensiero col quale Sturzo «riesce ad aggregare – spiega De Rosa – la coscienza politica non solo di tanta parte del movimento cattolico, ma di quella parte del nostro paese che era rimasta esclusa dalle scelte fondamentali del nostro Stato unitario». 

Il secondo episodio è sulla dimensione europea di Sturzo, sul suo fiero antifascismo, sulla sua lotta contro i totalitarismi, fino alla terza parte sul suo rapporto con l’Italia e la politica del dopoguerra, con la sintesi, conclude De Rosa, che «o è democrazia morale o non è democrazia». Cambia l’approccio, dunque, la forma, anche se in tutte le puntate rimane la voce narrante ad aumentare la chiarezza e la precisione di un testo sanamente concepito il grande pubblico. Non cambia, in ogni caso, la sostanza, che rimane quella di un racconto attento a descrivere l’uomo nel suo percorso politico costruito sulla relazione costante con la fede: «È il mio dovere di cristiano», risponde don Sturzo a chi gli chiede, nel primo episodio, perché si impegni in politica, lotti coi pastori e si faccia il «fegato nero». Su questo principio pone la sua passione, le sue idee, la fatica di portare avanti l’alto senso di responsabilità e di impegno civile, il suo delicato rapporto con la chiesa di quegli anni, il suo legame profondo con la storia: lo Sturzo di questo sceneggiato è ovviamente quello del 18 gennaio 1919, della fondazione del Partito Popolare con l’appello a tutti gli uomini «liberi e forti», ed è quello che incontra Giolitti, Turati, Salvemini; è uomo che attraversa i momenti più drammatici della storia italiana e mondiale del Novecento. 

Si muove col suo tempo sempre addosso, palpabile, pressante: sfondo avvolgente e cornice ricca di dettagli che contribuiscono a rendere ancora oggi la visione di questo “quarantenne” don Luigi Sturzo — con la sua scrittura copiosa e le qualità immersive intrinseche al prodotto audiovisivo — valida per iniziare, o per accompagnare, una ricognizione sulla statura, l’attualità, l’importanza, la lezione del presbitero nato a Caltagirone nel 1871, e insieme sulla complessità dei decenni che egli ha nobilmente, cristianamente, duramente attraversato.