La questione politico-istituzionale di primaria importanza che il governo di Sua Maestà Britannica dovrà affrontare sarà quella scozzese. Come è noto, ai tempi del referendum il nord del Regno si pronunziò a larga maggioranza contrario all’uscita dall’Unione Europea. Ora tutti i sondaggi dicono che quella maggioranza si è ulteriormente ampliata e che lo Scottish National Party guidato dalla combattiva premier di Edimburgo, Nicolas Sturgeon, vincerà a mani basse le imminenti elezioni locali. Il programma è ben definito: la Scozia vuole rimanere nella UE e quindi promuoverà un nuovo referendum per separarsi da Londra. Una bomba ad orologeria che non sarà facile per Boris Johnson disinnescare e che porrà in serio pericolo il Regno di Elisabetta, di fatto l’unica persona che unisce la (quasi) totalità dei britannici.

Come si era già visto nel precedente referendum, la base di consenso alla secessione è molto ampia e ora Brexit non potrà che averla allargata (soprattutto in campo laburista, la volta precedente con l’ex inquilino di Downing Street Gordon Brown invece attivamente impegnato nella campagna per il Remain). Certo, senza il consenso del Governo centrale il referendum non si potrà tenere: ma sarà difficile impedirlo se la vittoria del partito indipendentista alle elezioni scozzesi dovesse risultare travolgente. Questo possibile conflitto interno al Regno Unito che tale potrebbe non essere più porrebbe – sia detto per inciso – seri problemi relazionali anche alla UE, stretta fra la necessità di mantenere – come vedremo – un rapporto di cooperazione in alcuni campi con Londra, oltre agli evidenti interessi commerciali, e la simpatia verso un possibile nuovo membro che però se è importante sul piano simbolico lo è meno su quello degli affari (e militare).

L’attenzione che inevitabilmente la Scozia richiamerà su di sé non deve però far dimenticare la questione irlandese. Ora, l’accordo con la UE garantisce in un qualche modo il non ripristino di un confine fisico fra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda de Nord appartenente al Regno Unito. E tutti sanno quanto ciò sia decisivo ai fini del mantenimento della pace nell’isola verde. In verità Londra effettuerà alcuni controlli doganali nel Mare d’Irlanda e quindi una sia pur minima separazione di confine verrà introdotta, ma non essendo sul terreno si spera non dia rinnovato fiato a risentimenti sepolti, ma forse non del tutto.

Infine, il rapporto con gli Stati Uniti. La famosa “special relationship”. Brexit incorpora in sé la volontà di rafforzare le relazioni interne al Commonwealth, politiche e soprattutto commerciali. Australia, Canada come importanti partner di un mondo anglosassone ancora capace di affermare il rilievo economico di quella che Churchill definì “anglosfera”. E, quindi, naturalmente innanzitutto USA. Il punto però è che se Donald Trump era un forte sostenitore della strategia sottostante a Brexit e avrebbe dunque dovuto comportarsi di conseguenza (o, almeno, questi erano gli auspici britannici sin dai tempi di Theresa May) lo stesso non si può certamente dire di Joe Biden. Il quale vorrà senz’altro ristabilire un rapporto da alleato – ancorché competitivo – con la vecchia Europa e non intenderà certo sostituirla con una relazione univoca con gli inglesi, che saranno considerati sì “amici speciali” ma non “partner privilegiati”. Lo scenario dunque è cambiato, e non di poco. Non si sa quali contromosse Boris Johnson abbia in mente, né se le ha.

Sul fronte europeo si avverte come una sensazione di sollievo per l’accordo raggiunto e, più ancora, per la conclusione della vicenda. Al dunque l’Unione si è ritrovata unita dietro al suo negoziatore-capo e alla sua ferma determinazione a non cedere né sui principi né sugli interessi concreti. La potenza economica della UE ha indotto il governo britannico a trovare infine una intesa ragionevole. E ora, libera dai continui freni britannici e dai loro irritanti opting-out, l’Unione potrà più facilmente marciare verso una sua maggiore integrazione. La dimostrazione si è avuta sin da ora, con il varo di Next Generation UE, un intervento molto rilevante finanziato per la prima volta da debito comune che senz’altro avrebbe visto l’opposizione britannica con annesso ricorso al diritto di veto, e che quindi non avrebbe, assai probabilmente, potuto essere varato. 

Tutto vero. Non solo. Molti e importanti sono gli interessi comuni di UE e Gran Bretagna. E ciò proprio perché l’isola è sì fuori dall’Unione ma è – geograficamente e quindi anche geopoliticamente – posizionata in Europa. In primis l’indispensabile collaborazione ai fini della sicurezza anti-terroristica, un terreno dal quale sarebbe irresponsabile togliere lo sguardo comune. Quindi la cooperazione delle diverse intelligence nazionali rimane essenziale. Altri ambiti di impegno comune, per non citare che i principali, sono senz’altro quelli della tutela ambientale e della conseguente lotta al cambiamento climatico (ove gli obiettivi europei restano i più ambiziosi a livello planetario) e quelli scientifici di Ricerca & Sviluppo. 

C’è poi il piano militare, che andrà affrontato in sede NATO. Resta il fatto, e non va sottaciuto, che privata della forza britannica l’Unione è oggettivamente debole, al di là della sua divisione in ventisette Forze Armate diverse e non coordinate. Un tema che Bruxelles a questo punto dovrà affrontare sul serio, foss’anche solo per decidere che non c’è la volontà politica di gestirlo unitariamente (e rimanendo così, di fatto, vincolati alle scelte e alle richieste di un alleato americano che non ritiene più il nostro continente così vitale per i suoi interessi come lo fu nello scorso secolo). 

E questa riflessione già inizia a mostrarci l’altro lato della medaglia. Ve ne sono sempre due, non bisogna mai dimenticarlo.

E l’altro lato è soprattutto il messaggio che Brexit invia, ovvero che si può entrare e/o uscire dalla UE a proprio piacimento: basta un semplice referendum, strumento facilmente manipolabile se organizzato nel periodo giusto, in un clima di generale insoddisfazione per un qualche motivo e supportato da una campagna fitta di fake news.  Brexit è un precedente che potrebbe anche avere un seguito, se solo si pensa ai problemi già sorti con Polonia e Ungheria sul fronte dei principi liberali o, su quello economico-finanziario, con Olanda e Danimarca. O, ancora, con paesi in difficoltà, come la Grecia. O nella gestione di problemi complessi quali le migrazioni, come l’Italia.

Al di là di come le cose andranno a Londra, e non è affatto detto che andranno bene, sarà decisiva la capacità dell’Unione di far apprezzare ai propri cittadini i vantaggi dello stare insieme. La gestione del piano Next Generation UE è un’opportunità da non sprecare. Se non fallirà nei suoi obiettivi sarà un punto segnato a favore. Ma se per un qualsiasi motivo le cose non dovessero andare come devono la crisi generata dalla pandemia potrebbe innescare altre exit e quindi la fine dell’idea unitaria. Forse non è ancora ben chiaro, ma Brexit pone l’Unione di fronte a scelte decisive. Se davvero l’annunciata Conferenza sul futuro dell’Europa ci sarà dovrà prenderne atto e svilupparsi di conseguenza.