Appena qualche mese fa, con un altro assetto politico, le dimissioni di Zingaretti avrebbero generato un’immediata rifrazione sugli equilibri di potere. Ne sarebbe scaturita l’avvisaglia di una crisi ministeriale, con tutti i commentatori impegnati a valutare la tenuta della legislatura. Certamente l’opposizione avrebbe alzato la voce per chiedere lo scioglimento delle Camere. Il terremoto politico, benché riguardante una forza di governo, non avrebbe circoscritto i suoi effetti al solo perimetro di questa, come se l’onda sismica potesse nello specifico arrestarsi al Nazareno.

Niente di tutto ciò si palesa in queste ore. Il gesto di Zingaretti mette a dura prova il partito, ne fa intravedere le difficoltà e gli affanni, certifica la sua consunzione vitale; e tuttavia, invece di costituire un problema per la politica, esorbita da essa per disperdersi nell’universo di una sconnessa invettiva moralistica, senza conseguenze sulla conduzione del governo. Draghi non dà segni di preoccupazione: va avanti, in silenzio, con imperturbabile sicurezza. Sembra addirittura che si rafforzi, agli occhi della pubblica opinione, nel momento in cui implode in maniera spettacolare la leadership del cosiddetto campo riformista.

Ora nel Pd aumenta il rischio di un confronto senza sbocco. L’invito a respingere le dimissioni del segretario segnala in fondo l’imbarazzo del gruppo dirigente. A suo carico Zingaretti ha lanciato accuse pesanti e persino ingiuriose, che mai s’erano udite in simili frangenti. Lascia, così ha detto, perché si considera il bersaglio di ogni polemica e quindi il “problema” del Pd; ma nel medesimo tempo – e qui sta il vulnus di un pronunciamento inusitato – ha detto di vergognarsi per la condotta indecorosa del partito. È come fa un partito ad accettare che il suo segretario ne infanghi l’immagine in questo modo, usando un tono da Savonarola? Come minimo, invece di piegarsi alla intemerata moralistica, dovrebbe archiviarne le incongrue pretese di superiorità. Avvenne così nella primavera del 1959 quando Fanfani, con le sue dimissioni, sfidò il gruppo dirigente della Dc: in notturna la maggioranza si riunì nel convento delle suore di Santa Dorotea e convenne di procedere alla elezione di Moro.

Si tratta di capire, a questo punto, se nel Pd esiste una nuova maggioranza in grado di sormontare, a costo di qualche sacrificio, il fallimento della gestione zingarettiana. Non è un passaggio ordinario, quello che attende un partito offeso ed umiliato, inabile a fornire per altro una connessione tra le dinamiche che lo tormentano e il percorso di un governo che lavora al futuro del Paese.  Incombe un senso di inutilità, se non altro perché, anche sul terreno strettamente politico, la transumanza verso una sinistra in gentile versione eco-populista, trova piuttosto un ancoraggio nell’iniziativa di Conte. Non c’è bisogno di una mediazione che Zingaretti ha spogliato di potenza e dignità. Il Pd vuole sciogliersi nella melassa del grillismo, visto che la sua variante ultima si avvale di nuovo, ma sempre dubbio afflato progressista? Sarebbe il tradimento di un’ambizione e la definitiva pietra tombale sulla opzione riformista. Per molti elettori è una verità acquisita da tempo, tant’è che gli ultimi sondaggi registrano persino l’ipotesi di un crollo strutturale. Adesso è tempo di scelte eccezionali. Certo, Zingaretti ha rinnovato stamane la tessera del Pd, ma dopo quanto è avvenuto il Pd resisterà all’onda d’urto di una crisi tanto grave?