DRAGHI NON HA CEDUTO AL POPULISMO. SUI 5 STELLE IL PD HA SBAGLIATO. È TEMPO DI PARLARE AL PAESE REALE.

 

Bisogna concepire un incontro dei diversi”, per dare un senso di novità a una coalizione capace di misurarsi con successo sul terreno della competizione con Salvini, Berlusconi e la Meloni. Se si sbaglia questo passaggio, rinunciando all’appello dei tanti che hanno abbandonato il campo perché delusi dalla mancata osservanza di un vero spirito unitario, allora il Pd è destinato a insabbiarsi in una campagna elettorale senza vigore e dunque senza prospettive. L’Agenda Draghi costituisce un impegno politico, al punto di prevedere che dopo le elezioni sia ancora lui, Mario Draghi, a guidare un nuovo governo.

 

Giuseppe Fioroni

 

Prima di tuffarci nella battaglia degli slogan, abbiamo il dovere di valutare correttamente l’accaduto. Draghi si è mosso con piglio e tempra di politico, mentre attorno al governo si organizzavano operazioni di disturbo. Il pericolo era la caduta di tensione, il gioco delle astuzie, la tentazione del piede dentro e del piede fuori, senza più il minimo tessuto connettivo a salvaguardia della esperienza di unità nazionale. Andare avanti in questo modo significava l’abbandono dello spirito repubblicano a favore di una logica di egoismi e contrapposizioni, preludio di una campagna elettorale all’insegna della rimozione di qualsiasi vincolo di solidarietà, ciascuno sottraendosi a un dovere di coerenza per il lavoro svolto assieme.

 

Non so fino a che punto il Pd abbia tenuto a freno queste spinte irrazionali. Certo, lo ha fatto più di altri e con più convinzione; lo ha fatto per una sensibilità che attinge ai valori di grandi culture democratiche e riformatrici, presenti nella storia del nostro secondo Novecento; soprattutto lo ha fatto per un senso di responsabilità nei confronti del Paese e per un atto di riconoscenza verso l’italiano più stimato negli ambienti internazionali, pronto a servire le istituzioni in una fase tormentata della vita politica nazionale (e non solo nazionale). Tuttavia, nel passaggio da Zingaretti a Letta sarebbe stato logico attendersi un cambio strutturale di linea politica, riconoscendo per tempo quanto fosse problematica la cosiddetta alleanza strategica con i 5 Stelle. Questo è mancato, con grave danno per il centro sinistra, tanto da dover adesso registrare l’impossibilità di qualsiasi accordo con Conte dopo la rottura sulla mancata fiducia al governo.

 

Cosa possiamo fare a questo punto? Letta ha parlato di una cambio di percezione degli italiani: la caduta di Draghi e la “vittoria annunciata” della destra scatenano i timori di una larga parte di opinione pubblica. Si tratta, allora, di aprire porte e finestre della politica – uscire dal castello, ci direbbe Moro – per accogliere le sensibilità di un elettorato che muove da altri convincimenti rispetto a quelli della sinistra tradizionale, sebbene congiunta alle forze di matrice popolare e liberale. Bisogna concepire un “incontro dei diversi”, per dare un senso di novità a una coalizione capace di misurarsi con successo sul terreno della competizione con Salvini, Berlusconi e la Meloni. Mettere veti o subire pregiudiziali è quanto di più ostico si possa immaginare in questa impresa di cooperazione a maglie larghe. Il Pd non deve pertanto coltivare l’illusione del “fai da te”, per cui ci si dimentica di quelle culture di governo – in primis il popolarismo  – che recano in sé il giusto primato delle alleanze.

 

È sorprendente come si trascuri il lavorìo nascosto di altri partiti, genericamente dislocati al centro, volto a cucire rapporti di vicinanza con il mondo cattolico. E ancor più sorprendente, all’inverso, appare l’inclinazione del Pd a ritenere che le “luci spente” riferibili a quel mondo possano tornare comunque utili all’interno del partito, anche se non illuminano più, certamente non più come una volta. Basta forse esibire un certificato di nascita per dare contezza di una testimonianza attiva, conscia delle novità del tempo, ma pur sempre fedele a una visione politica? A me non sembra, onestamente.

 

Se si sbaglia questo passaggio, rinunciando a richiamare i tanti che hanno abbandonato il campo perché delusi dalla mancata osservanza di un vero spirito di apertura, allora il Pd è destinato a insabbiarsi in una campagna elettorale senza vigore e dunque senza prospettive. Il che sarebbe la definitiva sanzione dell’errore che riporta, su un piano più generale, al misconoscimento delle ragioni di un elettorato alla ricerca di nuovi sbocchi, spinto però negli ultimi tempi a rifugiarsi perlopiù nell’astensionismo. Oggi si profila l’occasione per essere protagonisti della difesa e del rilancio della cosiddetta Agenda Draghi, dando al “Paese reale” l’assicurazione che in caso di vittoria il primo impegno consisterà nel chiedere ancora a Draghi di guidare un governo nel pieno dei poteri, con la coesione e la chiarezza d’indirizzo mancanti negli ultimi, eccezionali 18 mesi di una legislatura segnata dal trasformismo più smaccato. Un trasformismo che ha finito per logorare tutti, in parte anche il Pd, mettendo sul piedistallo gli uomini per tutte le stagioni.