Pubblichiamo uno stralcio dell’articolo apparso sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Matteo Laruffa

Il cambio di leader alla guida dei governi democratici è un evento di primaria importanza. Se in alcuni casi il cambiamento è talmente rilevante da poter dare il nome a un’intera fase politica, in altri casi si tratta dell’inizio di semplici parentesi storiche abbastanza circoscritte o di momenti di transizione. Considerando gli elementi che differenziano i vari sistemi politici e le peculiarità dei singoli casi nazionali, nel periodo attuale almeno quattro democrazie stanno vivendo un momento di rinnovamento dovuto all’arrivo di nuovi leader. Ad esempio, nel 2020 abbiamo assistito alla fine del periodo del premierato di Shinzō Abe in Giappone dopo otto anni. A gennaio è stata la volta della transizione alla Casa Bianca da Donald Trump a Joe Biden. In Italia poche settimane fa è avvenuto il collasso della maggioranza che sosteneva il secondo governo Conte e la nascita del nuovo governo presieduto da Mario Draghi. Infine, il termine del cancellierato di Angela Merkel è previsto per il prossimo semestre. Non si parla di una svolta radicale nel caso della leadership giapponese, che resta sempre in mano al partito liberal-democratico quasi ininterrottamente dal 1955, né è chiaro quello che succederà in Germania dopo l’uscita di scena di Angela Merkel, seppur molti si aspettano che il prossimo governo tedesco vorrà tentare la strada del continuismo e che le istituzioni manterranno la loro tradizionale stabilità inalterata.

Cosa si può dire dell’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca e di quello di Mario Draghi a Palazzo Chigi? Molte analisi politiche delle scorse settimane hanno sottolineato una serie di parallelismi tra i due leader, ma oltre alla visione comune dell’atlantismo e i problemi speculari che si trovano sulle loro agende (pandemia e recessione), occorre aver presenti le differenze che riguardano il loro percorso personale, le specificità dei poteri dei due governi, i ruoli dei due presidenti nella politica interna e internazionale.

Biden e Draghi arrivano ai vertici dei rispettivi Paesi, gli Usa e l’Italia, avendo percorso strade molto diverse. Il primo è un veterano della politica e del partito democratico americano, il secondo è stato chiamato dal presidente Mattarella a formare il governo dopo decenni al servizio di istituzioni tecniche di livello nazionale e internazionale. Biden si è rapportato con la logica del consenso politico, elezione dopo elezione, mentre la carriera del presidente Draghi ha sempre valorizzato gli obiettivi e le responsabilità di un mandato fondato sull’indipendenza dell’istituzione. Diverso è anche il loro ruolo nella dinamica politica interna dati i molteplici elementi di distinzione, istituzionali e costituzionali, che plasmano il potere esecutivo nei due Stati.

Cercare le analogie tra Biden e Draghi è particolarmente difficile se si considera l’architettura costituzionale in cui operano questi due leader. L’autorità del presidente americano ha una portata ben più ampia di quella di qualsiasi presidente del Consiglio italiano e il modello della separazione dei poteri del governo di Washington non è sovrapponibile a quello di Roma (che predilige la fusione dei poteri mediante il legame fiduciario tra Parlamento e governo). Negli Stati Uniti il presidente è in carica quattro anni e ha un ambito di policies sulle quali può esercitare i suoi poteri che è abbastanza chiaro – pur variando nei periodi storici e alla luce della contingenza in casi eccezionali – essendo dotato di strumenti normativi ed esecutivi molto incisivi sull’attività del governo federale. Tra l’altro, l’investitura derivata dall’incontro del principio elettorale e di quello presidenziale permette a ciascun presidente di poter prendere alcune decisioni in completa autonomia dal gioco politico tra istituzioni e partiti.

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