Ci sono due aspetti della crisi da tenere in massima considerazione. Il primo riguarda l’Europa, ovvero la maggioranza (popolari, socialisti e liberal-democratici) che si è costituita contro le forze della destra xenofoba e neo-nazionalista. Questa Europa non può smentire se stessa accettando, come se niente fosse, un’Italia in mano ai sovranisti. Da qui deriva non solo l’apprensione per un governo – quello uscente – in mano a Salvini, ma anche per elezioni a comando, fatte in fretta, con il rischio di un Salvini ancora più forte.

Il secondo chiama in causa la naturale resistenza degli eletti a subire passivamente, dopo appena 16 mesi, la conclusione della legislatura. È avvenuto solo tre volte (1992-1994, 1994-1995, 2006-2008) che le Camere fossero sciolte con largo anticipo sulla scadenza naturale, ma sempre dopo almeno due anni . Molti segnali indicano sottotraccia che la voglia di tornare bruscamente alle urne non sia così forte. Resta poi il dubbio che una campagna elettorale artificiosamente compressa dentro uno schema  bipolare, avente come perno la sfida sovranista, possa rappresentare più che una risposta alle difficoltà del Paese un brutto e pericoloso salto nel buio.

Fattori esterni ed interni obbligano a inquadrare con grande realismo il percorso che si è aperto con la formalizzazione della crisi. Tutto può avvenire, anche un improvviso deragliamento; ma certo la prudenza del Capo dello Stato non inclina alla rassegnazione verso un irrazionale finale di partita. Il riserbo che avvolge l’azione di Mattarella cela il timore che la perniciosa fibrillazione in corso degeneri nell’irreparabile, spezzando la ricerca di un nuovo assetto di maggioranza in seno all’attuale Parlamento.

Questa, in effetti, è la difficile situazione che il Quirinale si sforza di padroneggiare. Dunque, che fare? Innanzi tutto occorre  allontanare le nubi delle pregiudiziali. Ad esempio, la discontinuità invocata da Zingaretti è un’arma a doppio taglio, essendo questo quadro politico il prodotto di una più radicale discontinuità, sancita per altro dagli elettori il 4 marzo del 2018, a tutto discapito dei governi a guida Pd. Andrebbe perciò mitigato l’aspetto strumentale e partigiano del concetto: usarlo, insomma, per chiedere la testa di Conte appare quanto meno fuori misura. La discontinuità ha senso e valore se tratteggia rigorosamente la fuoriuscita dal ricatto sovranista. Altro – come dire? – è farina del diavolo.

Stavolta il diavolo non è Renzi, il quale per convinzione o convenienza si muove, in verità, con lo scrupolo di chi dispensa a piene mani l’invito a star sereni. Ma si tratta di uno scrupolo che lascia comunque intravedere la possibilità di contromosse, se necessarie. D’altronde, finché Casaleggio e Zingaretti si spalleggiano a vicenda, lo spazio di manovra dell’ex segretario Pd rimane grande ma pur sempre circoscritto. Se invece, proprio sulla questione del reincarico a Conte, dovesse incresparsi il dialogo tra Pd e M5S, il peso di Renzi diventerebbe decisivo. A lui Conte può andar bene e lo ha fatto capire: aspetta solo, per dare seguito alla cosa, un’apertura dei pentastellati. A quel punto non sarebbe da escludere un nuovo strappo renziano per arrivare, magari sempre con Conte, a un governo di tregua. La pace al Nazareno ê sempre armata.

P.S. Nel frattempo il Presidente del Consiglio ostenta serenità e distacco, considerandosi fuori da ogni partita (Italiana o europea). Fa bene.