Quando scompare un genio, tutti si affrettano a dire che lascia un grande vuoto. Che non lo dimenticheremo mai. Che ha dato un contributo indelebile alla cultura italiana e mondiale. E altre frasi del genere. Fatte apposta (al di là della circostanza) per non pensare perché di geni non ne nascono più. O forse ne nascono ancora, ma spesso non ce ne accorgiamo. Mancano infatti l’habitat e l’humus per farli emergere, manca chi li nota, li alleva, li incoraggia, ci investe. Oltre alla sua grande abilità di compositore, Ennio Morricone ha avuto la fortuna di nascere in un’epoca che sapeva riconoscere e valorizzare il talento, senza pretendere di livellarlo e “formattarlo” nei confini del conformismo dominante. Infatti, di lui ricordiamo e ricorderemo tutte le colonne sonore, mentre dei suoi aspiranti eredi di oggi forse non ricorderemo granché.

Ennio Morricone era un finto burbero, capace di grande generosità. Si divertiva a sorprendere l’interlocutore, diceva di non avere avuto una vera vocazione per la composizione musicale. Come ricorda nel bel libro intervista scritto con Giuseppe Tornatore, «è stato un processo graduale, prima volevo diventare medico, poi scacchista». Romano trasteverino, il papà suonava la tromba al Teatro dell’Opera. Siccome lo stipendio non bastava, scelse la libera professione. C’era la seconda guerra mondiale, erano tempi difficili per tutti. La prima cosa che gli veniva in mente parlandone era un prete partigiano che gli disse «tra poco ne sentirete delle belle». Era la bomba di via Rasella (1944). 

Sempre nel libro-intervista, Morricone ricorda un pranzo con Pasolini e Fellini (interessante anche solo da immaginare) in cui lui racconta ai suoi commensali un’idea per un film. «L’incipit si svolgeva in un’epoca indefinita, in una città popolata da gente onesta, buona, che crede negli ideali e che non ha un capo, vive in una specie di anarchia costruita sulla bontà e la correttezza di ciascuno verso gli altri. Un giorno un uomo, forse più intelligente degli altri, sostiene che questa falsa pace è alimentata dalla musica, che entra dentro i sentimenti delle persone e sviluppa reazioni imprevedibili, drammatiche, gioiose, positive e negative, reazioni a causa delle quali la città sta perdendo la sua tranquillità. La soluzione è proibire la musica. Tutti sono d’accordo, l’idea è sua, gli altri la accettano, perciò diventa un capo, quasi senza volerlo. Dopodiché si comincia a non modulare la voce, si parla senza l’alto e il basso delle nostre corde vocali. Pian piano le costrizioni aumentano e il capo intanto sta diventando un dittatore…».

Per l’autore, che immaginava questa storia, la musica era anzitutto una manifestazione di libertà. Quella che gli ha arrovellato i pensieri (sotto forma di note) fino all’ultimo giorno della sua vita. Quella libertà che è costante ricerca dell’equilibrio e dell’armonia. A proposito della fatica della “pagina bianca” diceva che bisogna «andare avanti alla ricerca di tutto, tutto ciò che è possibile e a volte impossibile. Quel pensiero e quel desiderio di osare non devono morire». E infatti non sono morti, con la conclusione della sua vita terrena. Una vita della quale tutti, ovunque nel mondo, lo hanno ringraziato, proprio con un pensiero. Il pensiero e il desiderio non muoiono, restano nell’aria. Liberi e eterni, come le colonne sonore di Morricone.