EPIDEMIA DELL’INDIFFERENZA: PADRE TUROLDO SUI POVERI.

La difesa dei poveri nelle opere - riflessioni scritte in momenti diversi - del sacerdote poeta. Scrive Gianfranco Ravasi che in lui «fede e vita, preghiera e società, culto ed esistenza, tempo e piazza s’incontrano e convivono» | Recensione dell’Osservatore Romano.

Ribelle e fedele. David Maria Turoldo combatté ogni fenomeno che potesse offendere la dignità della vita e i diritti della persona e, nello stesso tempo, visse con spirito integrale la propria vocazione, la quale si riconosceva nel dialogo costante con Dio, suo “unico confidente”, come rileva il cardinale Gianfranco Ravasi nella prefazione a David Maria Turoldo, Il sapore del pane (Edizioni San Paolo, 2002), che raccoglie riflessioni e poesie del presbitero composte in momenti differenti. Un libro che vale la pena di riprendere e rileggere tanto vibra dell’ardore e della passione che caratterizzano lo stile comunicativo di Turoldo, che non si limitava a dire, ma andava oltre volendo annunciare e proclamare.

In queste pagine si riscontra, con icastica evidenza, il suo indomito impegno per la causa della giustizia e della moralità. «I poveri – afferma – li sopportiamo perfino alle porte delle chiese la domenica, quando andiamo per abitudine ad assistere alla tua morte, Signore. Siamo tutti come l’Epulone, con questo bassorilievo di Lazzaro alle soglie del palazzo, per dar risalto alla nostra distinzione». Sottolinea il cardinale Ravasi che per il teologo e scrittore «fede e vita, preghiera e società, culto ed esistenza, tempo e piazza s’incontrano e convivono». È per questa ragione che in filigrana a tutte le sue pagine, anche quelle più marcatamente politiche, s’intravedono continue citazioni, allusioni e ammiccamenti alle Sacre Scritture. «Quello che egli sente — afferma il porporato — è il dramma dell’uomo che si tormenta per le strade della storia, e il dramma di Dio che si pone accanto alla sua creatura più cara, libera di accoglierlo o di respingerlo». Le riflessioni e le poesie di Turoldo costituiscono, al contempo, un inno liturgico e un canto di battaglia, e «ci conducono nell’eremo ma anche nel groviglio della città».

Le riflessioni assumono spesso la caratura di una vera e propria denuncia che squarcia il velo della prudente e anodina diplomazia. In virtù di questo “strappo” Turoldo non ha dunque difficoltà nel dichiarare che «ormai siamo uomini senza rimorsi». E quindi lamenta che «quando un popolo è indifferente, allora sorgono le dittature e l’umanità diventa un gregge solo, appena una turba senza volto. Allora il bene è uguale al male, il sacro uguale al profano, e l’amore è unicamente piacere, un male il sacrificio, un peso la libertà e la ricerca». Il suo auspicio è di essere salvato «dal colore grigio dell’uomo adulto» e che tutto il popolo sia liberato «dalla senilità dello spirito» e che quindi possa ritornare a cantare nelle chiese. Le sue poesie sono anzitutto una celebrazione del Signore, la cui presenza è garanzia di serenità e sicurezza. «Vieni tu che ci ami, nessuno è in comunione col fratello se prima non lo è con te, o Signore. Noi siamo tutti lontani, smarriti, né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo. Vieni, Signore», scrive. E subito dopo aggiunge: «Vieni sempre, Signore».

Non si fa certo scrupoli Turoldo di lanciare attacchi alla Chiesa. Rileva che la religione può contare anche sugli istinti, «ma non è questa la sua base». Le passioni sono sempre «una vegetazione effimera». Per questa ragione la piazza è sempre piena per tutti, lussureggiante. «Stiano tranquilli i capi, i dittatori di ogni colore — scrive —. La piazza sarà sempre il loro regno, e il popolo lo strumento di manovre infallibili. Invece non si illudano i pontefici circa le masse acclamanti, non si gonfi soprattutto il nostro cristianesimo delle adunate spettacolari. Non è questa la Chiesa adorante». Le radici dello Spirito, infatti, sono altrove. Esse «possono germinare anche nella carne, ma la loro resistenza viene dalla verità e dalla grazia».

Nella ferma consapevolezza che senza una sincera e convinta umiltà non è possibile affermare uno spirito di autentica comunione, Turoldo prega il Signore affinché faccia scoprire e riscoprire a ogni credente «il sapore dell’acqua e il dolciore del pane e dell’olio». Una preghiera che si innalza al Creatore che «nudi e uguali ci generi alla luce, uguali e nudi ci ghermisci poi nella tua inviolata tenebra». Senza la povertà non ci sarà benessere per nessuno e nessuna cosa è nostra che non sia di tutti. «Anche l’unico mantello è dell’ignudo — sottolinea con forza Turoldo — e l’ultimo avanzo è dell’indigente. E l’ultimo pane è per chi ha fame!». Tali asserzioni si configurano come insegnamenti che il Signore impartisce al suo popolo. Così prega Turoldo: «Signore, insegnaci tutto questo, affinché possiamo dirci cristiani».

Fonte: L’Osservatore Romano – 19 gennaio 2023

[Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore del quotidiano stampato in Città del Vaticano]