Essere insegnanti oggi

Riflessione sulla professione docente, all’inizio di un anno scolastico difficile.

Nel salotto buono di una importante trasmissione televisiva ho sentito tempo fa una considerazione che mi sembra valga la pena di riprendere e approfondire.

Un noto uomo politico – per la par condicio ne taccio il nome ma l’acutezza delle sue osservazioni gli meriterebbe una favorevole citazione – ha esposto alcune riflessioni sulla professione dell’insegnante evidenziando come sia mutata nel tempo la sua considerazione sociale.

Il ragionamento è stato più o meno questo: una volta essere insegnante comportava un accreditamento positivo nell’immaginario collettivo perché se ne riconosceva soprattutto la valenza educativa, la straordinaria incidenza formativa nei processi di crescita culturale e morale delle giovani generazioni.

Oltre ad esercitare una mera funzione di trasmissione del sapere il docente era soprattutto depositario di valori etici e di una riconosciuta stima sociale che gli meritava il rispetto delle famiglie e delle istituzioni: l’insegnamento era – senza retorica – una missione e il maestro, o il professore, soprattutto un esempio per i suoi alunni.

Al contrario di oggi, dove questo profilo umano e professionale sembra adombrato da altri criteri di realizzazione sociale: vivendo in un mondo di interessi e finzioni che promette carriere facili e folgoranti, dove prevalgono parametri di stima e considerazione centrati sul profitto e sul successo, sul tenore di vita elevato e sul peso economico, sulla visibilità e sull’ostentazione di una cultura di basso profilo, sgrammaticata e diretta, a volte persino volgare e volutamente provocatoria, la funzione docente viene marginalizzata nella categoria della borghesia perdente e senza speranza.

Oggi come allora insegnare non rende ricchi e famosi ma un tempo concedeva forse la soddisfazione di un riconoscimento sociale e di un’autorevolezza morale che il livellamento culturale degli anni più recenti sembra aver ridimensionato se non addirittura cancellato.

Questa valutazione acquista ancora più spessore negativo nel contesto del sistema scolastico italiano: è a tutti noto, infatti, che i docenti del “bel Paese” sono i peggio retribuiti d’Europa e questo la dice lunga sulla deriva negativa in atto e sulle scarse motivazioni di incentivazione economica che potrebbero spingere un giovane laureato ad abbracciare questa professione.

Eppure, girando nelle aule delle scuole italiane, si trovano insegnanti straordinariamente capaci di esercitare con autorevolezza la loro professione e vale la pena di evidenziare quanta considerazione e quanta riconoscenza meriterebbero per il compito gravoso che ogni giorno si assumono.

Alla scuola si chiede tutto: di supplire alle carenze della famiglia, di integrare le diversità e le marginalizzazioni, di capire e curare le insicurezze, di socializzare i rapporti interpersonali, di colmare le lacune presenti nel contesto di appartenenza, di facilitare i percorsi di acculturazione, di stimolare le coscienze, di personalizzare la formazione.

Ogni giorno la scuola si prende carico di tutto questo e lo fa generalmente con umiltà e senza ostentazioni, affrontando le battaglie contro la dilagante cultura degli sberleffi televisivi, della irriverenza sociale, del bullismo rampante, direi – fuor di metafora – della maleducazione imperante e anzi adulata: una moda nella moda che fa tendenza e restituisce autostima e gratificazioni agli aspiranti gradassi. Spesso sono i genitori stessi che “insegnano” ai propri figli ad oltraggiare i professori, che li difendono se “si permettono” di ritirare i cellulari durante un compito in classe, che li aggrediscono fisicamente dentro e fuori la scuola, facendo scempio di quel luogo che un tempo era sacro e rispettato nel sentire comune: una specie di gilet gialli della pedagogia sociale più deleteria e distruttiva.

Educazione stradale, sessuale, alimentare, lettura dei quotidiani in classe, scoperta del territorio, gite e svaghi turistici, tre “i”, quattro “e”: la scuola si deve occupare di tutto, si allunga e si accorcia come il letto di Procuste.

Nelle aule scolastiche entrano sedicenti esperti di ogni tipo e gli insegnanti sono letteralmente vessati da riunioni, tavole rotonde, incontri, seminari, convegni, adempimenti burocratici che prolungano a dismisura – complicando le cose – tempi e procedure, metodi e modelli organizzativi che sarebbero ben più snelli ed efficaci se a questa forca caudina della collegialità obbligata e inconcludente si sostituisse l’osservazione critica e la competenza professionale.

C’era una volta – nella scuola dell’obbligo – il fondamentale obiettivo dell’insegnare a leggere, scrivere e far di conto ma ci è sembrata una finalità riduttiva: ecco allora la pluralità dei linguaggi e la molteplicità degli alfabeti, le materie integrative e quelle complementari con il risultato di licenziare dalla scuola elementare alunni che non sono in grado di scrivere una lettera o di fare il conto della spesa.

C’era l’educazione civica  ma ce ne siamo a poco a poco vergognati: troppe regole rendevano insicuri e frustrati i nostri figli che, crescendo, hanno imparato a imbrattare i muri delle stazioni, a buttare ogni genere di immondizie per terra, ad aggredire i compagni e gli adulti disabili e indifesi e credono che il sindaco sia il capo dei pompieri.

Ora è stata reintrodotta nei programmi scolastici: forse la politica più litigiosa e derogante dalle regole del bon ton e del rispetto altrui si è resa conto di aver oltrepassato i limiti, di offrire pessimi esempi nel linguaggio, nell’assenza di dialogo, nell’incapacità all’ascolto delle ragioni altrui, nella corruzione come metodo di interlocuzione spiccia e per le vie brevi.

A meno che – e questo sarebbe gravissimo – la politica la imponga alla scuola, insieme ai grembiulini come simbolo di uguaglianza di opportunità educative  ma si sottragga dall’applicarla in prima persona: sarebbe una scelta demagogica e inaccettabile.

Ricordo un politico che – alla presentazione di un libro sulla ‘scuola come luogo di educazione e di istruzione’ – contestava il primo dei due compiti: “la scuola pensi all’istruzione, all’educazione ci pensiamo a casa mia”. Cancellando con quella irriverente battuta il senso sociale e – appunto di educazione civica – che la scuola è chiamata a dispensare, anche coltivando sentimenti di pace, mitezza, solidarietà che non tutte le famiglie sono in grado di impartire, perché nella platea sociale si ricompongano e si rispettino le differenze di nascita , di appartenenza e di censo.

Dopo lo sfascio della deregulation sociale e la deriva delle promozioni sottocosto ci si accorge adesso che è necessario un giro di vite, a cominciare dai fondamentali della buona educazione: qualcuno vorrebbe infatti addirittura che – all’ingresso del loro professore in aula – gli alunni si alzassero in piedi salutando con il “Lei”, buona regola recentemente reintrodotta in Francia.

Essere insegnanti oggi è ancor più difficile che in passato, ci sono i miti dell’efficienza e dell’efficacia, ci sono le sfide della tecnologia e dei nuovi saperi.

Ma se viene a mancare il rispetto verso l’istituzione e le persone che più di ogni altra la rappresentano questa sfida è già persa in partenza.