Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Isabella Guanzini

Johann Baptist Metz, una delle voci più autorevoli del pensiero teologico contemporaneo, è scomparso il 2 dicembre all’età di 91 anni a Münster, dove ha insegnato molti anni ed era professore emerito di teologia fondamentale. Fondatore della “nuova teologia politica”, che dichiara la propria discontinuità rispetto alla “classica” teologia politica legata all’opera filosofico-giuridica di Carl Schmitt e alla sua legittimazione religiosa dell’egemonia dello Stato e del regime totalitario, ha avuto un grande impatto sul pensiero teologico post-conciliare. Nato il 5 agosto 1928 ad Auerbach, in Baviera, Metz ha compiuto i propri studi a Bamberga, Innsbruck e Monaco di Baviera laureandosi in filosofia e in teologia. Ordinato sacerdote nel 1954, fu, negli anni post-conciliari, consigliere a Roma nel Segretariato per i non-credenti e cofondatore della rivista teologica internazionale «Concilium».

Discepolo di Karl Rahner (1904-1984), Metz ha saputo intrecciare la sua enorme eredità teorica con la potenza teologico-critica di un pensiero radicalmente innestato nel presente e nel passato della storia. Il programma teologico di Metz si è per questo impegnato sistematicamente nel tradurre politicamente la prospettiva trascendentale rahneriana, accentuando nello stesso tempo le potenzialità mistiche che percorrono l’intera opera del maestro. Per questo si può interpretare la sua opera complessiva — della quale l’importante editore Herder ha nel frattempo pubblicato dieci volumi — come una teologia della contemporaneità in cui mistica e politica si incontrano nello spazio della società plurale e secolarizzata, compenetrandosi reciprocamente.

Teologia politica significa qui, in primo luogo, la considerazione del Cristianesimo come risorsa per il nostro tempo: non certo per ragioni di identità culturale, ma per ragioni di fecondità culturale, umana e spirituale. Contro la tendenza contemporanea di una privatizzazione del Cristianesimo, che reagisce alla sua crescente marginalizzazione culturale ritirandosi in una sfera separata, più intima e personale, Metz si è impegnato a mostrare gli effetti pubblici, sociali e profetici del messaggio cristiano, nella convinzione — che muove in effetti l’intera teologia rahneriana — che la speranza e la salvezza che esso annuncia non siano affatto private, ossia destinate a una parte, ma siano, al contrario, per tutti. Perché «Dio è un tema del genere umano o non è affatto un tema. Gli dèi sono pluralizzabili e regionalizzabili, ma non Dio, non il Dio biblico». Per questo la sua «mistica dagli occhi aperti» rimanda a un atteggiamento che non si riconosce in uno spiritualismo estatico e in una religiosità intimistica, ma in una fondamentale attenzione critica al mondo e ai drammi della storia, che invoca una sorta di risveglio umano e spirituale alle fatiche del vivere comune. Perché l’universalità del monoteismo biblico si fonda secondo Metz sul fatto che si tratta di un discorso su Dio sensibile al dolore.

È chiaro come la sua teologia politica desideri rifuggire dalla riflessività sterile di un linguaggio teologico auto-riferito, destoricizzato, tanto lucidamente e logicamente fondato da non poter non solo integrare ed elaborare ma nemmeno percepire le opacità e le incongruenze dell’umano. La sua proposta teologica, biblicamente ispirata e legata alla tradizione della filosofia critica della cosiddetta scuola di Francoforte, si rivolge agli spazi cittadini del mondo globale, incalzando sia l’insensibilità atmosferica del vivere attuale, segnata da una sempre più profonda amnesia culturale, sia l’apatia di sistema della ricerca teologica di scuola, che mostra una «sorprendente resistenza allo sconcerto».

Alla luce di tale «mistica che cerca il volto», Metz si rivolge in particolare alla lingua della compassione, che non chiude gli occhi di fronte alle storie di dolore, passato e presente, del mondo. La sua teologia politica non intende promuovere una vaga «empatia» (Mitgefühl), ma una percezione partecipante e obbligante del dolore altrui, capace di sostenere lo sguardo dell’altro sofferente almeno un poco più a lungo di quanto lo permettano i riflessi spontanei della nostra autoaffermazione. Si tratta di una sensibilità per la situazione (Situationsempfindlichkeit), disponibile a farsi interrompere dal dolore altrui, in cui l’io non viene semplicemente dissolto, quanto piuttosto rivendicato nella sua responsabilità sociale e politica. Il primo sguardo di Gesù, ha ricordato Metz in più occasioni, non si è infatti diretto al peccato degli uomini, ma al loro dolore. «Questa basilare sensibilità per il dolore degli altri contraddistingue il nuovo modo di vivere di Gesù».

Nel contesto atonale della società contemporanea, in cui si mettono sistematicamente in atto dispositivi di stordimento e di distrazione di massa, soprattutto le giovani generazioni sembrano oggi avere perso la potenza del grido, che per Metz rappresenta la possibilità più autentica di fare esperienza della questione del senso e, non da ultimo, dell’invocazione di Dio. Entro questo orizzonte, in un tempo «della crisi di Dio dalla forma religiosa», ossia in una atmosfera benigna nei confronti delle religioni ma in cui è assente la domanda delle domande, la teologia politica di Metz ha avuto il coraggio di porre, non senza durezza, la questione di Dio come questione della teodicea, ossia il «discorso su Dio come grido per la salvezza degli altri, per coloro che soffrono ingiustamente, per le vittime e gli sconfitti della nostra storia» (Memoria passionis. Ein provozierendes Gedächtnis in pluralistischer Gesellschaft, 16). Per il teologo l’esperienza religiosa non ha nulla a che fare con una pratica di superamento della contingenza o con la ricerca di un supplemento d’anima capace di armonizzarci con l’ambiguità del reale. Metz invita a osservare l’atteggiamento biblico del popolo di Israele che, nel momento della tribolazione, nel tempo del deserto, è rimasto «povero in spirito»: di fronte all’evenienza del dolore non ha infatti cercato vie compensatorie o mitizzazioni che lo elevassero al di sopra della sofferenza, della schiavitù, dell’esilio. È stato capace di rimanere nella tribolazione della vita, accettando la propria debolezza senza mistificazioni. La questione della teodicea non riesce ad acquietarsi attraverso risposte teologiche riconcilianti, che in certo modo sorvolano quei traumi individuali e collettivi che sconvolgono ogni fede nella redenzione ed eludono il grido di sdegno, di protesta o di disperazione di fronte a eventi privi di ogni giustizia e di ogni senso. La questione della teodicea deve restare non-dimenticabile, benché irrisolvibile: non può essere rimossa, benché a essa non sia possibile rispondere del tutto. Metz ritiene che l’intera storia della teologia cristiana abbia trovato un punto di arresto nell’abisso umano di Auschwitz come «topografia dell’orrore», che diviene un passaggio di non ritorno per la questione di Dio per l’uomo contemporaneo. Auschwitz non lascia indenni né il cristianesimo e la sua teologia né la società e la sua politica, in quanto «ha abbassato profondamente il limite del pudore, di natura metafisica, tra uomo e uomo» ed è «diventato un irrinunciabile sopralluogo della nostra coscienza storica». Sarà, in effetti, proprio l’autorità dei sofferenti, nella celebre scena del giudizio in Matteo 25, che giudicherà i singoli e la storia alla fine dei tempi. Si tratta certo di un’autorità «debole», ma che può essere fatta valere in tutte le grandi religioni e regioni del mondo, là dove qualcuno soffre ingiustamente e innocentemente.

Fare teologia dopo Auschwitz significa per Metz porre al centro della dottrina della creazione il grido apocalittico: «Dov’è finito Dio?», ossia la questione non-rispondibile e non-dimenticabile della teodicea, anche come questione di responsabilità e di giustizia per i morti. Si tratta non soltanto di ripensare il rapporto del cristianesimo con l’intera tradizione del popolo d’Israele, ma anche di ripensare la teologia cristiana alla luce di una cultura anamnestica, che si esprime come memoria, come memoria passionis.

Johann Baptist Metz ha mostrato con vera passione politica e onestà intellettuale che il cristianesimo può essere ancora una risorsa per il presente plurale e secolare se non rinuncia alla sua irreconciliatezza, se conserva una sana ritrosia nel rispondere, se vive quella «irrequietezza mistica dell’interpellanza» che è segno di una sensibilità biblica per la situazione. La sua nuova teologia politica resti non solo un ricordo per la società pluralista, ma una viva provocazione per il discorso teologico del presente e del futuro.