Favolosamente scorrette: non censurate le fiabe. Una riflessione su “Vita e a pensiero”.

 

Recentemente la furia impotente del «political correctness» si è abbattuta sul mondo delle fiabe). Cadono le braccia, soprattutto se si pensa che ci sono adulti, donne e uomini adulti che peraltro hanno lardire di definirsi studiosi, che impiegano il loro tempo ad elaborare e a pubblicare simili perle di saggezza.

Silvano Petrosino

 

«La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di inaccessibile»: così scriveva quasi cento anni fa Heidegger in Essere e tempo (1927).

 

La globalizzazione ha universalizzato la chiacchiera. Ciò che un tempo si svolgeva nei bar oggi si diffonde nella rete: tutti parlano e dicono la propria, tutti hanno un parere su ogni cosa e purtroppo intendono ad ogni costo comunicarlo agli altri; confondendo tale parere con un pensiero, è quasi inevitabile autoconvincersi ch’esso meriti di essere diffuso e condiviso.

 

La discussione al bar ha i suoi vantaggi: ci si lascia andare, si parla per il piacere di parlare, senza farla troppo lunga, senza stare a dividere il capello in quattro; al bar ci si riposa, ci si diverte, si «passa il tempo». Si parla di economia e amore così come si parla di calcio e di sconti al supermercato. Che in un bar si chiacchieri è del tutto naturale; ciò che a me sembra meno naturale e soprattutto molto più preoccupante è che si continui a chiacchierare anche al di fuori del bar; nell’era digitale la chiacchiera è diventata la modalità fondamentale del discorrere umano.

 

Immersa in questo brusio del linguaggio ogni parola/idea finisce per estenuarsi, per svuotarsi dall’interno perdendo di conseguenza ogni nobiltà, ogni densità, ogni drammaticità; è il trionfo del «to like» sul «to love», di un sapere tiepido e incolore che non ha più alcun sapore. Questo accade per parole/idee complicate come «amore», «felicità», «giustizia», «verità», ecc.: la chiacchiera le trasforma in inoffensivi passpartout utili ad aprire ogni porta, a toccare ogni cuore e a trovare, non a caso, facili consensi.

 

Ma poi, quando si chiacchiera intorno a parole molto più leggere come ad esempio «resilienza», «sostenibilità», «correttezza», per non parlare del politically correct, allora l’effetto è davvero deprimente e, pur non volendolo, si finisce per apprezzare una certa ottusità maschile che non si lascia distrarre dall’atmosfera dolciastra che avvolge tali tematiche e continua a chiacchierare, con passione e determinazione, sempre e solo di calcio e di moto.

 

In effetti a proposito della «correttezza» si stanno toccando livelli che è lecito qualificare patologici. Recentemente la furia impotente del «political correctness» si è abbattuta sul mondo delle fiabe. C’è chi ha definito Cappuccetto Rosso un racconto maschilista perché la bambina viene salvata da un uomo, il cacciatore, e non si è salvata da sola («come se una donna avesse sempre bisogno di un uomo e non fosse capace di trarsi dagli impicci da sola»); altri hanno sostenuto che Biancaneve non è rispettosa dei nani poiché li configura come degli handicappati incapaci della virilità dimostrata dal principe («come se i nani non fossero capaci di amare una donna con la stessa passione di un maschio normodotato»); altri ancora – e qui si rivela una raffinatezza nel leggere e interpretare che solo la perversione permette di raggiungere – hanno sostenuto che La bella addormentata nel bosco alimenta la violenza di genere, perché il principe, l’uomo, bacia la ragazza, la donna, senza il suo consenso («è violento ogni gesto d’affetto che non è richiesto e liberamente accolto»). Cadono le braccia, soprattutto se si pensa che ci sono adulti, donne e uomini adulti che peraltro hanno l’ardire di definirsi studiosi, che impiegano il loro tempo ad elaborare e a pubblicare simili perle di saggezza. Come negare che, di fronte alla natura e allo spessore di un tale «dibattitto culturale», l’estenuante discussione al bar sull’ennesima partita di calcio s’impone per la serietà che l’alimenta e per il rigore con il quale viene condotta?

Tuttavia si può forse prendere lo spunto da tali amenità per ritornare ad ascoltare e per lasciarsi interrogare ancora una volta da uno degli insegnamenti più profondi che le fiabe, così come sono state scritte e ci sono state tramandate, non si stancano di proporci. A riguardo di tale «morale» gli studiosi più seri non si sono mai ingannati, e soprattutto non hanno mai ingannato. Mi limito in questa sede a citare Bruno Bettelheim, il quale, fin dalle primissime pagine di quel suo magnifico studio intitolato Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Milano, 1997), coglie con lucidità il punto: «Molti genitori credono che al bambino dovrebbero essere presentati soltanto la realtà conscia o immagini piacevoli e capaci di andare incontro ai suoi desideri: egli dovrebbe insomma essere esposto unicamente al lato buono delle cose. […] Le storie moderne scritte per l’infanzia evitano per la maggior parte i problemi esistenziali, che pure sono cruciali per tutti noi […]. Le storie anodine non accennano mai alla morte o all’invecchiamento, o ai limiti della nostra esistenza, o all’ispirazione alla vita eterna. Le fiabe, al contrario, pongono il bambino onestamente di fronte ai principali problemi umani».

 

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