Professore, può fare un quadro riassuntivo dei macro-dati numerici più interessanti e delle evidenze più significative relativamente alla consistenza e alla distribuzione della popolazione mondiale, europea e italiana allo stato attuale?

Le valutazioni più recenti indicano in circa 7,6 miliardi il numero di esseri umani che oggi popolano il Pianeta e se ne contano poco più di 60 milioni in Italia. Guardando al passato vediamo come ci siano voluti numerosi millenni per arrivare al primo miliardo di cittadini del mondo, mentre è stato sufficiente un solo secolo per sfondare il muro dei 5 miliardi e già pochi decenni dopo si viaggia velocemente verso il confine dei dieci. Ma ciò che è rilevante non è solo la crescita della popolazione mondiale bensì, e soprattutto, la divaricazione tra i paesi economicamente più sviluppati – il loro attuale miliardo di abitanti resterà tale anche in futuro- e quelli etichettati come “in via di sviluppo”, cui sarà interamente ascrivibile la crescita demografica mondiale.

  • Quali sono le emergenze che richiedono alla politica di gestire i fenomeni delle evoluzioni spontanee, come le migrazioni, e la progettualità dei cambiamenti indotti e guidati? Si ha l’impressione che la politica percorra un binario separato e neanche parallelo rispetto agli studi che le scienze demografiche le mettono a disposizione.

La demografia ha il compito di aprire gli occhi all’opinione pubblica e alla politica su un insieme di temi che si legano alle dinamiche e al cambiamento demografico. Offre elementi di riflessione sui processi di ricambio generazionale, i troppi nati di alcune regioni e i troppo pochi di altre, così come sulle disuguaglianze sul fronte della sopravvivenza e della malattia. Senza dimenticare il grande problema dell’invecchiamento demografico e della gestione dei flussi di mobilità, interni e internazionali, che impongono regole di intervento e azioni di governo.

  • Quali sono attualmente le tendenze demografiche più significative? In quali Paesi e per quali ragioni climatiche, socio-economiche ed etniche si vive più a lungo? Quanto incidono poi il tenore di vita, il sesso, le radici etniche di appartenenza? Qual è il rapporto biunivoco tra benessere e longevità e quali invece gli aspetti che – rispetto alla durata media della vita – influiscono negativamente a causa delle degenerazioni degli stili di vita nei paesi cosiddetti ricchi e industrializzati?

Le persistenti disparità di fronte alla malattia e alla morte sono una delle persistenti ingiustizie del nostro tempo. Se è vero che nel tempo si sono registrati progressi sostanzialmente ovunque, è anche vero che ci sono tuttora popoli e persone fortemente avvantaggiate o svantaggiate da questo punto di vista. Mentre da noi la durata media della vita è nell’ordine di 83 anni (81 per i maschi e 85 per le femmine) ci sono paesi, specie nell’Africa subsahariana, dove si fatica a superare i 50. Si tratta di realtà drammatiche caratterizzate da sottosviluppo, non solo sotto il profilo economico, in cui agiscono negativamente le carenze sul piano dell’istruzione, della sanità, della partecipazione alla vita sociale, del riconoscimento dei diritti della donna e dell’infanzia; tutto ciò avviene spesso nel contesto di un sistema socio-economico e politico incapace di assicurare libertà e democrazia. Quanto poi al discorso sui paesi ricchi, è chiaro che i cambiamenti ambientali e la comparsa di nuovi stili di vita possono avere anche qualche controindicazione in termini di benessere psico-fisico ma, nonostante il ricorrente allarmismo, è un dato di fatto che la vita in buona salute – non solo la sua durata in quanto tale- si allunga nei paesi del Nord del mondo costantemente.

  • La stagnazione e la recessione in atto nei paesi occidentali sembrano favorire ed accentuare le derive di crescita espansiva di Paesi emergenti come l’India e la Cina. Ho letto che la crescita demografica della Nigeria porterà rapidamente questo Paese al terzo posto al mondo per consistenza della popolazione. Cosa significa questo da un punto di vista economico e politico? Se i macroprocessi socioeconomici in atto dovessero consolidarsi, verso quali scenari ci stiamo dirigendo, specie in Italia e in Europa?

La demografia di paesi emergenti come Cina e India è segnata da dinamiche espansive partite anni fa, ma destinate ad esaurire gli effetti di crescita, specie per la Cina. Quest’ultima dovrebbe fermarsi attorno a 1,4 miliardi già dai prossimi anni, mentre l’India, eseguito il sorpasso entro il prossimo decennio, dovrebbe assestarsi attorno a 1,6 miliardi attorno alla metà del secolo. Quanto alla Nigeria, gli attuali 200 milioni di abitanti saliranno a 300 milioni tra meno di vent’anni e a 400 milioni alla metà del secolo. D’altra parte negli scenari mondiali la vera incognita resta l’Africa, in particolare quella sub sahariana, dove i segnali di rallentamento della fecondità e della crescita sono ancora modesti. È evidente che tutto ciò impone una revisione di alcuni equilibri sul piano della produzione, del consumo e della distribuzione delle risorse e delle persone nel panorama mondiale.

 

  • È immaginabile un arresto o un’attenuazione dell’ondata espansiva della popolazione, in relazione alla sostenibilità ambientale? C’è un problema di compatibilità, un limite? L’ONU ha ipotizzato una estinzione graduale della biodiversità sul pianeta: la sesta nella storia della Terra, ma stavolta per mano dell’uomo.

Dire poi se 9-10 miliardi siano o non siano troppi richiede una valutazione non solo delle risorse disponibili, ma anche della loro distribuzione e dei conseguenti comportamenti in termini di produzione e di consumo. È evidente che 10 miliardi di consumatori di energia secondo gli standard del nord America o della ricca Europa avrebbero un effetto dirompente su alcuni equilibri. Ma questo lo possiamo dire alle condizioni di oggi. Non si possono escludere sviluppi sul piano tecnologico in questo e in altri campi. Possiamo anche sperare che si accreditino comportamenti e modelli di vita più rispettosi della condivisione delle risorse e dell’ambiente di un pianeta che ha inevitabilmente dei limiti.

  • Si assiste ad uno spostamento negli equilibri mondiali e nelle relazioni strategiche degli Stati dalla geopolitica alla geoeconomia. In che misura ciò influirà sulla popolazione mondiale e in che modo la demografia potrà aiutare a prevedere nuovi scenari con studi utili ai decisori politici ed economici?

La demografia ha il compito, come si è detto, di descrivere e interpretare le dinamiche e i fenomeni, evidenziando le diverse realtà e le loro problematiche. Ma è proprio dall’identificazione dei punti deboli che sarà possibile adottare i rimedi necessari. Questo naturalmente richiede che i messaggi della demografia non siano ignorati per motivi di convenienza o per le esigenze della politica, come spesso accade.

  • In che modo le politiche nazionali sul welfare possono concretamente incidere come fattori regolativi degli indici di natalità? Ius soli e ius culturae: se ne fa un gran parlare ma mi pare prevalgano ragionamenti pre-giudizialmente non suffragati dalla conoscenza dei dati, delle loro proiezioni e della loro incidenza verso la “sostenibilità” dei modelli sociali che ne deriverebbero.

Certamente le scelte riproduttive, e quindi la natalità, dipendono dalle condizioni di contesto entro cui maturano. Il costo dei figli, i problemi di cura, la compatibilità del ruolo di madre rispetto al lavoro, sono tutti elementi che incidono e rispetto ai quali i servizi di welfare possono agire da facilitatori nella scelta dell’essere genitori, non dimentichiamo tuttavia i fattori di ordine culturale. La nostra società non gratifica chi si fa carico dell’impegno nel produrre, mantenere e formare il capitale umano indispensabile per garantire la continuità della società stessa. Anche in questo senso è opportuno che vi sia una riflessione e un’azione di cambiamento.

Riguardo al tema dello jus soli o jus culturae non entro nel dibattito. Mi limito a ricordare che già oggi molti bambini con cittadinanza straniera diventano, in base alle leggi attualmente in vigore, cittadini italiani. Siamo tra i primi 5 paesi dell’Unione europea per la più alta percentuale bambini con meno di 15 anni tra coloro che acquisiscono la cittadinanza italiana. Questo è sotto gli occhi di tutti attraverso i dati Eurostat del triennio 2015-2017, gli ultimi disponibili. Aggiungo che gli stessi dati sottolineano come l’Italia sia stato nel triennio, tra i 28 paesi dell’UE, quello con il maggior numero di acquisizioni di cittadinanza, sia in generale che rispetto ai i soggetti con meno di 15 anni.

Mi piacerebbe che il dibattito, qualunque sia la posizione assunta, partisse da una base di conoscenze oggettive che spesso non vedo.

  • I flussi e gli spostamenti dei popoli generano rimescolamenti culturali, etnici, religiosi, sociali persino inarrestabili, mutano le condizioni e gli stili di vita, favoriscono gli interscambi culturali e le comunicazioni sociali. Ma in che modo si può creare un meccanismo virtuoso di autoregolazione e controllo che favorisca la gradualità e l’inclusione sociale ed eviti – invece – i conflitti e le esasperazioni di convivenze a volte insostenibili?

Sono pienamente convinto che il confronto e l’interscambio con gli altri è sempre arricchente, ma devo aggiungere che per poterlo valorizzare occorrono condizioni di fiducia reciproca. Penso che i flussi migratori siano un contributo per la società ospite e un vantaggio per i migranti solo se si realizzano forme di convivenza rispettose di regole e valori. Perché ciò accada è importante che vi sia chiarezza sulle norme e che siano altresì condivisi i principi che definiscono diritti e doveri del vivere sociale. Il percorso di integrazione deve essere reso possibile a tutti gli immigrati, ma questo naturalmente richiede un dispendio di risorse che difficilmente sono compatibili con flussi di entità particolarmente rilevante. I numeri, ancora una volta, hanno una grande importanza.

  • L’esperienza di questi ultimi anni ci ha insegnato che i popoli si muovono per tre motivi: la guerra, la fame e il lavoro. Allora chiedo al demografo: fino a che punto la politica, oltre ad aprire le frontiere e generare concentrazioni e collassi da una parte e desertificazione umana e di dotazioni e mezzi dall’altra, può impegnarsi concretamente per favorire un nuovo ordine mondiale, basato sulla distribuzione delle risorse, sull’equità sociale, sul rispetto delle identità?

Se si vuole definire un nuovo ordine mondiale è chiaro che non si deve prescindere da conoscenze demografiche. Le persone, i popoli sono i protagonisti e i destinatari del cambiamento. Oggi sappiamo quali sono le tendenze più probabili e le problematiche che si portano dietro, ma non disponiamo ancora di una proposta convincente sul piano dei nuovi equilibri che dovrebbero dare benessere, equità e rispetto. Esempi di programmi come il “piano mondiale d’azione”, nato nel 1974 con la conferenza ONU di Bucarest e poi ripreso in Messico al Cairo a cadenza decennale, servivano più ad affrontare l’emergenza di fronte a cambiamenti troppo rapidi, oggi serve una visione che ha come riferimento precisi obiettivi di investimento al fine ultimo di eliminare – o almeno ridurre ai minimi termini – le diseguaglianze. A tale proposito, la statistica ufficiale ha messo in campo una batteria di indicatori per misurare l’avvicinamento ai così detti “Obiettivi di sviluppo sostenibile”. È un contributo importante che ci auguriamo possa non solo darci un resoconto di quanto accade, ma anche stimolare l’azione e l’impegno perché si possa giungere a un Mondo migliore per tutti.