Giorgio Pasetto ci ha lasciato, ma non ci lascia la sua fedeltà a un’idea di politica buona, nel solco del cattolicesimo democratico.

Ricordo di un amico, di un politico dotato di volontà e passione, di un uomo capace di esprimersi con affetto, al riparo da ogni spregiudicatezza.

 

Lucio D’Ubaldo

 

Giorgio Pasetto era l’immagine del rabdomante che avanza fiducioso e prudente con la bacchetta in mano. Esplorava, prima di andare diritto alla meta. Le incognite della politica non lo spaventavano, ma nemmeno lo spingevano all’avventura. Poiché amava il mare, non si fidava di uscire al largo come che sia, spensieratamente, non curando del tempo. Curiosità e diffidenza ponevano capo al suo stile gioviale, benché si celasse, dietro quell’apparenza di facile approccio, una difesa istintiva rispetto alle insidie della politica: non poche, in verità, specie nella Dc della sua gioventù. E la politica era la sua missione, per la quale nutriva un sentimento di genuina ed intima appartenenza.

 

È stato sindaco, consigliere provinciale, poi consigliere e assessore e Presidente di Regione, quindi deputato e infine senatore; ha percorso tutti i gradini del cursus honorum di antica memoria, affermando le sue qualità lungo un percorso impegnativo; si è speso molto nella vita di partito, ricoprendo ruoli apicali nelle diverse configurazioni che l’aderenza al patrimonio cattolico democratico gli ha suggerito e imposto, prima appunto nella Dc, poi lungo l’asse Ppi-Margherita-Pd. È stato per molti, soprattutto in anni difficili, un punto di riferimento essenziale in città, a Roma, ma sempre con i piedi e la testa nel contesto della provincia, conservando un legame speciale con la sua Anzio.

 

Nelle Acli aveva fatto il suo apprendistato. Il periodo è quello di Labor e dei suoi eredi, con i furori e le contraddizioni della cosiddetta “opzione socialista” che l’Associazione andava affermando sulla scia della contestazione studentesca e operaia del biennio ‘68-‘69. Viene perciò catapultato nell’agone della politica democristiana finendo per incrociare l’esperienza della Base, la sinistra politica della Dc, quando perlopiù gli aclisti tendevano invece a confluire nell’altra sinistra, quella sociale, rappresentata da Forze Nuove.

 

Ebbe con Giovanni Galloni, leader della Base a Roma e nel Lazio, un legame che gli vietava di partecipare al “mugugno” di cui si nutrivano spesso le relazioni umane e politiche, specie all’interno delle correnti. Grazie alla scuola basista, se così si può dire, aveva affinato una sensibilità speciale, quasi un culto, per le alleanze: senza, in effetti, non c’è politica. O non c’è nei termini che la visione democratica più matura e corretta esige provvidenzialmente dai partiti o dai movimenti. Sta qui, in ultimo, una radice di tolleranza che rende umana e civile la lotta per il potere nel contesto delle società libere.

 

Bisogna riconoscere che nel travaglio in morte della Dc seppe conservare una encomiabile dirittura di pensiero e di azione. Visse con entusiasmo la stagione del nuovo Partito popolare e fu, al congresso di scioglimento, protagonista insieme a pochi di una resistenza che appariva dettata dal senso di fedeltà alla vicenda storica del cattolicesimo democratico. Poi venne il tempo dell’ibridazione, più tentata che realizzata, almeno positivamente, nel modello di partito plurale. Vi si adattò con intelligenza e riuscì a costituirsi interlocutore degli “ex” diversi da lui, dimostrando come fosse essenziale per un uomo della sua formazione sposare la causa di una politica di largo respiro, aliena da qualsiasi tentazione settaria e gruppuscolare.

 

Ebbe sempre cura di non cedere alla routine di partito e all’angustia di una politica autoreferenziale. A chi spetterà più avanti, nella calma di un ricordo meno intriso di commozione, ricordarne le amicizie e le frequentazioni che attestavano il desiderio di mantenere vivo un retaggio di motivazioni ideali, non potrà sfuggire l’importanza di alcuni legami duraturi, sempre vissuti con sufficiente discrezione, come accadde ad esempio con don Luigi Di Liegro.

 

A Giorgio si poteva pure rimproverare qualcosa, data l’incontrovertibiile natura belluina della politica, ma in fondo gli si perdonava tutto in virtù della sua buona fede, della sua passione sincera, del suo modo di concepire e coltivare i beni dell’amicizia. Con lui se ne va un tempo che abbiamo amato, ma non la speranza che da quel tempo possa nascere una politica ancora più autentica e generosa, la stessa che Giorgio saluterebbe con l’espressione sorniona dei giorni della sua buona battaglia, al servizio di un ideale democratico e cristiano, per un’affermazione di umana giustizia.