Gli orizzonti selvaggi della società globale

Calenda fa molte proposte in tal senso, ma non mancano le lacune e le contraddizioni.

Fonte http://www.associazionepopolari.it a firma di Giuseppe Ladetto

Ho già fatto riferimento al recente volume di Carlo Calenda Orizzonti selvaggi limitatamente alla sua trattazione delle politiche di immigrazione. Credo sia utile prendere in considerazione, sia pure brevemente per ragioni di spazio, il tema centrale del libro riguardante il bilancio della globalizzazione e le insufficienze con cui la classe dirigente di impronta liberal-progressista ha affrontato il fenomeno. Il libro può essere considerato un’efficace sintesi di quel pensiero che cerca di coniugare tecnocrazia e valori liberal-progressisti.

Dopo 30 anni dall’avvento di quella globalizzazione che avrebbe dovuto condurre a un mondo migliore per tutti, si constata che per noi occidentali molto è andato storto. L’Occidente si è indebolito, il suo peso politico ed economico si è ridotto, i suoi valori sono messi in discussione nel mondo intero, mentre è venuto meno il senso di appartenenza ad un’unica civiltà. L’Europa ne ha seguito la parabola discendente con effetti amplificati: priva di identità, morbida, lenta, consensuale, è l’anello debole dell’Occidente.

Il bilancio economico della globalizzazione vede il successo dei Paesi emergenti che hanno realizzato rilevanti incrementi di reddito, quando invece, nei Paesi “ricchi”, la classe media non ha avuto vantaggi e una sua significativa parte ha visto ridursi il proprio reddito, mentre per i ceti popolari sono aumentate le difficoltà e la precarietà. I Paesi occidentali non hanno saputo rappresentare e proteggere quei cittadini (la maggioranza) che hanno sperimentato un peggioramento delle condizioni di vita.

La responsabilità di quanto è accaduto risale a quella classe dirigente di impronta liberal-progressista che ha dominato la scena della prima fase della globalizzazione. Essa infatti ha raccontato i fatti in modo semplificato e unilaterale: la società della conoscenza e della tecnologia è stata presentata come un secondo avvento; la globalizzazione e il progresso tecnologico sono stati descritti come fatti inevitabili che la politica deve solo assecondare; alla politica è stato richiesto di cedere il passo alla tecnica, mentre la competenza doveva restare l’unico requisito del buon politico. Pertanto, agli esseri umani non resterebbe altro che sottomettersi a leggi considerate oggettive (economiche, scientifiche, tecnologiche, psicologiche ed emotive). Ma, osserva Calenda, tutti costoro non hanno capito che, come la storia dimostra, l’uomo è disposto ad arretrare solo fino ad un certo punto, oltre al quale si ribella.

Mentre i leader progressisti si sono assoggettati alla retorica dell’inevitabile e all’ideologia del futuro, i movimenti populisti si sono affermati perché rivendicano il ruolo della politica nel proteggere i cittadini da quanto viene presentato come un cammino obbligato, e il loro messaggio vince perché è rassicurante e fonte di identità. Tuttavia, rileva Calenda, le loro proposte sono un mix di fuga dalla realtà e di ritorno al passato, tali da non essere realizzabili: i rifugi degli sconfitti (nazione, confini, barriere, dazi) sono trincee fragili ancorché, al momento, offrano una protezione almeno psicologica.

La filosofia liberista ripone le sue speranze per il futuro nella crescita economica senza fine prodotta dalla liberazione delle forze di mercato. Ma il progetto universalistico non ha messo in conto l’importanza per l’uomo della tradizione e della cultura, di cui ha progettato lo sradicamento come premessa allo sviluppo e alla pace. Inoltre ha postulato che, all’aumento della libertà individuale, dovesse corrispondere un progresso culturale e sociale di pari valore, senza fornire agli individui gli strumenti culturali per superare l’alienazione che scaturisce da una tale società.

Grave errore della classe dirigente occidentale è stato il non aver compreso che la transizione verso l’economia globale non poteva essere lasciata ai meccanismi automatici del mercato e alle logiche con cui agiscono il capitale e la finanza. Al contrario, Cina, India, Giappone, Corea e Taiwan hanno ottenuto successi accompagnando con una forte presenza dello Stato una apertura condizionata al mercato globale.

Oggi, anche in Occidente, per correggere la rotta della globalizzazione diventa necessario mutare le politiche interne dei Paesi cambiando il rapporto tra Stato e mercato, tra crescita economica e crescita sociale. Ciò richiede che lo Stato ritorni ad essere forte per proteggere chi perde e per allargare il numero dei vincenti. Qui nasce un primo interrogativo. La critica ai percorsi che caratterizzano il cammino della globalizzazione riguarda solo la gestione della fase di transizione o investe anche lo scenario seguente e la natura stessa dei contenuti e degli obiettivi posti sul lungo termine? La risposta sembrerebbe che la critica vada oltre la fase di transizione, ma non è sufficientemente netta e chiara.

L’analisi della situazione fatta dall’autore è ampiamente condivisibile, mentre si fa più complicata la valutazione dei passi successivi da lui proposti. È facile dire che la sfida da parte dei progressisti non sta nel negare l’evidenza, né le ragioni di chi soffre della condizione in cui si trova a vivere, e di chi ha una giustificata paura, ma consiste nel mettere in campo un progetto per una democrazia liberale in grado di proteggere gli sconfitti e gestire le trasformazioni, restituendo allo Stato la capacità di agire. Bisogna definire una strada percorribile.

Calenda fa molte proposte in tal senso, ma non mancano le lacune e le contraddizioni.

1) Questa seconda fase della globalizzazione, secondo l’autore, va giocata insieme da tutto l’Occidente, realizzando un’alleanza tra i Paesi che coniugano le regole di un mercato equo con alti standard sociali e ambientali, sotto la direzione degli Stati Uniti, la cui leadership è vitale per la liberaldemocrazia. Calenda sembra ignorare la geopolitica. Secondo Lucio Caracciolo, fra gli Stati ci possono essere solo alleanze temporanee dettate da motivazioni geopolitiche: mai da affinità ideologica o dei valori sostenuti. Soprattutto non si può ignorare che, da un secolo, gli USA sono ostili a che in Europa si affermi una qualunque potenza (compreso uno Stato unitario) in grado di limitare la loro leadership planetaria, mentre Calenda auspica la creazione di un’unione politica europea per quanto limitata a un nucleo “carolingio” allargato.

2) Fra il neoliberismo e il sovranismo, viene proposta una terza via che contempla la possibilità di gestire la globalizzazione in modo che porti benefici a tutti, non essendo la globalizzazione una forza naturale impossibile da governare. A tal fine, ci vuole un ruolo attivo dello Stato come investitore sociale per superare le categorie di individualismo e collettivismo, mentre deve diventare un monito per tutti che non c’è nessun diritto senza responsabilità. Per ricreare solidarietà sociale, dopo il declino della tradizione, bisogna tenere ben saldi alcuni “pilastri” alla base di una democrazia liberale vincente: a) avere fiducia nel futuro, ma le aspettative devono trovare riscontro nel presente; b) commisurare la velocità dei cambiamenti alla capacità dei cittadini di comprenderli e di adattarsi ad essi; c) salvaguardare e implementare il capitale sociale che rappresenta il patrimonio più importante; d) bilanciare il rapporto tra l’efficienza (delle soluzioni tecniche) e i principi di equità, giustizia e rappresentanza; e) riconoscere il valore del binomio Stato-Nazione, e ciò anche nel sostegno ai valori culturali.

Rilevo che, malgrado le buone intenzioni, si resta sempre nelle logiche di un riformismo che non va al cuore dei problemi. Anche per Calenda, il turbocapitalismo resta il sistema più efficiente nel produrre ricchezza. Pertanto il suo ruolo resta centrale nel tracciare il cammino dello sviluppo, mentre alla politica rimane il compito, mediante lo strumento dello Stato, di riparare i guasti sociali e ambientali che il cambiamento produce e nel contempo di cercare di redistribuire equamente la ricchezza prodotta. Ma le criticità che connotano il nostro tempo (modificazioni climatiche, esaurimento delle risorse, degrado ambientale, disoccupazione strutturale, divario fra Sud e Nord del pianeta che produce migrazioni incontrollate, ecc.) nascono dalle logiche e dalle modalità produttive del turbocapitalismo, dalla tipologia dei consumi e dei modi di vita da esso determinati e non solo dall’ineguale distribuzione della ricchezza prodotta o dall’insufficienza del welfare nel proteggere i perdenti.

3) La democrazia progressista che viene proposta ha alla base la tutela dei diritti individuali, la libertà economica, e lo Stato di diritto. Deve tuttavia ricercare il punto di equilibrio tra Stato e privato, diritti e doveri, comunità e individuo, efficienza e giustizia, democrazia e governance. Osservo, tuttavia, che il punto di equilibrio ricercato deriva anche dal peso delle spinte diversificate dei vari gruppi di interesse, dei ceti o categorie o classi in cui si articola la società. Calenda dovrebbe dirci su quali componenti della società confida per realizzare l’equilibrio desiderato. Come protagonista, pare guardare alla classe media, a suo dire liberale e progressista per natura, ma, oggi, questa è in crisi, cerca protezione ed è particolarmente arrabbiata contro quell’élite liberale da cui si è sentita abbandonata.

4) Chi vive nel Sud del mondo aspira a raggiungere gli standard di consumi e i modi di vita dei Paesi occidentali, e, a tal fine, chi ne ha i mezzi emigra (o cerca di emigrare) verso di essi. Calenda si rende conto che l’estensione delle modalità di vita degli occidentali al Sud del mondo avrebbe un impatto drammatico sull’ambiente, difficilmente sostenibile; ma poi, nelle proposte che fa, se ne dimentica invocando l’inserimento dei Paesi africani in una sorta di mercato comune che inevitabilmente li condurrebbe a ricercare uno sviluppo sul modello europeo (non più sostenibile già in casa nostra).

5) Secondo Emanuele Severino, il dominio della tecnica comporta il tramonto del capitalismo, della morale, dell’umanesimo, della politica e della democrazia. Calenda non si nasconde tale pericolo, ne discute ampiamente, ma finisce per rimuovere la questione affermando che “il compito della politica è governare l’oggi e preparare il domani e non agire sulla base di costruzioni utopistiche o apocalittiche di un futuro lontanissimo e inconoscibile”. Tuttavia i pericoli insiti in una tecnologia sempre meno sotto controllo non riguardano un futuro lontano, ma (come le modificazioni climatiche) sono già presenti.

6) Calenda riconosce l’importanza della questione ambientale e sottolinea la necessità di uno sviluppo sostenibile, ma, come ho già detto in altro articolo, sembra dare per risolto nel medio periodo il problema delle modificazioni climatiche delle quali sottovaluta la portata. Forse, inconsciamente rifiuta di prendere atto di una realtà che, se affrontata seriamente, metterebbe in crisi quel modello di sviluppo che sta comunque alla base delle sue proposte.

I sovranisti e i populisti propongono soluzioni non realizzabili o comunque inefficaci. È un’affermazione ricorrente difficilmente contestabile Tuttavia è lecito chiedersi se sia realistico e percorribile anche il cammino tracciato nel progetto di Calenda, un progetto riconducibile a quanto pensano gli esponenti del mondo economico e tecnologico ancorché l’autore manifesti particolare attenzione alle problematiche sociali e alla tutela di chi resta indietro.