Mentre i cittadini danno prova di buon senso, sorprendendo  gli abituali fustigatori degli italici costumi, alcuni Presidenti di Regione alzano i toni dello scontro. 

De Luca (Campania) ha parlato di “idiozie” del governo e ha inscenato per alcune ore – dopo ha dovuto fare marcia indietro! – la parte dello super sceriffo, immaginando fermi di polizia e provvedimenti penali per i trasgressori di un’ordinanza regionale (incostituzionale) ancora più stringente e limitativa in materia di mobilità personale. 

Dal canto suo, Fontana (Lombardia) ha preso di petto la Protezione Civile accusandola di grave inadempienze per non essere in grado di fornire i macchinari necessari all’allestimento di un ospedale d’emergenza nei locali della nuova Fiera di Milano. In verità mancherebbe anche il personale medico e paramedico, a riprova che la corsa contro il tempo per assistere i malati da Covid-19 non prevede – checché ne pensi il varesino Fontana secondo cui “Roma non capisce” – soluzioni di “rito ambrosiano”.

Sono alcuni esempi, tra i più eclatanti, che indicano la dismisura che ottenebra l’azione dei governatori regionali.  Certo, la situazione è drammatica in alcune zone del Paese. Tuttavia la disciplina non è una regola che s’intende applicabile soltanto ai cittadini. Dovrebbe essere, in primo luogo, il modo con il quale un uomo di governo si propone, ovvero si comporta, specie nei momenti più difficili. Questo scrupolo manca, evidentemente, sicché uno spettacolo di tale autoesaltazione finisce per destare forti e motivate perplessità in gran parte della pubblica opinione. Questa battaglia contro il virus ha bisogno di uno sforzo eccezionale, in spirito di grande solidarietà, per garantire il massimo coordinamento tra gli operatori.

Se pensiamo al domani, quando l’emergenza cesserà d’imporsi alla normale conduzione della vita pubblica, dobbiamo mettere in agenda la revisione del modello di sanità regionalizzata. È necessario individuare, con attenzione ed equilibrio, una diversa formula di gestione del sistema. Avere 21 ministri della salute in giro per l’Italia, incastrati nelle logiche del proprio universo di riferimento, non è la migliore garanzia per 60 milioni di italiani. Un conto è valorizzare le eccellenze, figlie magari del buongoverno locale, altro è rassegnarsi alla incombenza delle satrapie. Perché mai le Regioni, concepite per legiferare e programmare e coordinare, con una responsabilità che si voleva collegate essenzialmente allo sviluppo territoriale locale, debbono conservarsi nella forma attuale, assai distante dal disegno originario? In sostanza, perché debbono occuparsi quasi esclusivamente di sanità, appigliandosi a un modello tutto di gestione e di potere, per giunta con scarsi controlli

Il fallimento del federalismo non è una questione di dottrina. Sta nella coscienza di un Paese strattonato violentemente dalla crisi sanitaria. E non è neppure un complotto ai danni delle Regioni, ma la constatazione di quanto sia stato grave – da Bassanini in poi – aver tutti giocato la carta del leghismo, slabbrando il tessuto morale e istituzionale di un Paese che solo negli ultimi 150 di storia patria ha conosciuto la forma di Stato unitario nazionale. Ora si tratta di rivedere questa impostazione, correggendo gli eccessi e mitigando le pretese, così da trovare un nuovo equilibrio. Bisognerà ripartire dai Comuni, sperando nell’avvento di una nuova generazione di Sindaci e amministratori locali. In definitiva, la sfida non consiste nel ritorno al vecchio centralismo, ma nella ricostruzione di un legame profondo e corretto tra Stato e autonomie locali, riportando le Regioni al ruolo di enti di programmazione fissato nella (bellissima) Costituzione del 1948.