Tratto dall’Osservatore Romano in edicola oggi

Andrea Granelli, esperto di digitale e sensibile ai temi dell’impatto delle nuove tecnologie sull’uomo e sulle organizzazioni entra nella conversazione avviata su queste pagine dalla riflessione di Giuseppe De Rita sulla crisi della società occidentale e il ruolo dei cattolici e lo fa partendo dall’analisi della tecnologia — in primis quella digitale — nell’era contemporanea e delle sue capacità trasformative che richiedono una nuova etica e una conoscenza non solo tecnica ma anche sapienziale che rimetta al centro i valori, l’uomo integrale, l’ambiente visto come casa comune.

Partiamo dalle elezioni europee cercando di andare oltre le derive del sovranismo.

Un dato che mi sembra degno di nota è l’emergenza dei verdi in Europa che indica una visione della politica che va oltre l’attuazione di un programma e che richiede valori, progetti lunghi, sogni. Mettere al centro del pensiero politico solo un programma con gli elettori è molto pericoloso, soprattutto in un contesto in continua evoluzione. Molte delle questioni che la politica deve affrontare non erano così evidenti o urgenti durante la stesura di questo documento. Inoltre il programma rischia di trasformarsi da mero strumento in vero e proprio fine. Quando la discussione politica si anima (e va in profondità) il discorso viene sempre interrotto da due affermazioni: o “non è nel programma” (e quindi il tema diventa automaticamente non rilevante né urgente) o “è nel programma” (e quindi deve essere fatto necessariamente e acriticamente, anche se il contesto è nel frattempo mutato). È un po’ come a scuola quando il professore pone come priorità il dovere di finire il programma rivelando che forse si è perso il senso dell’esperienza scolastica. Rimettere l’ambiente al centro è quindi un ottimo punto di partenza per riallenare l’uomo a ricostruire una visione lunga e densa di valori. E soprattutto a rileggere l’ambiente come casa comune, come creato che richiede una custodia e non una tutela che rischia di imbalsamarlo. In questo l’enciclica Laudato si’ ha avuto, a mio parere, un ruolo centrale che deve produrre ancora molti frutti. Anche il nuovo vocabolario introdotto — conversione ecologica, antropocentrismo dispotico, tecnocrazia, grido della Terra — arricchisce la discussione e le prospettive, cambiando la natura del dibattito e togliendo l’esclusività della tutela ambientale dalle mani degli ambientalisti, senza nulla togliere al loro straordinario contributo: il compito è infatti di tutti; nessuno si può tirare indietro e ignorare il grido della terra.

Come si può riaccendere, allora, la passione politica anche nel nostro Paese?

È forse una delle sfide più importanti e complesse del prossimo decennio: “reingaggiare” i cittadini alla vita politica. Non ci sono infatti solo i Neet («not (engaged) in education, employment or training») di tipo economico. Ben più preoccupanti sono i Neet politici, ricondotti oggi alla banale e poco minacciosa statistica dei “non votanti” e dove le cause della loro non partecipazione vengono ricondotte a banali schematizzazioni calcistiche (“non c’è una squadra che valga la pena votare”). Come ci ricorda padre Giovanni Cucci nel suo ultimo libro, la felicità richiede non solo di avere qualcosa di cui vivere e qualcosa per cui vivere, ma anche qualcosa per cui morire, una ragione, dunque, che dia senso alla vita stessa, una ragione per cui valga la pena lottare fino in fondo, una ragione che trascenda la nostra esistenza di individui. Non stiamo vivendo un’epoca di cambiamento ma un vero e proprio cambiamento d’epoca, ha osservato Papa Francesco, e noi oggi siamo nella terra di mezzo, nell’epicentro del cambiamento sospesi fra un “non più” e un “non ancora”, per riprendere le riflessioni sul tempo di sant’Agostino rilette da Bauman con la lente della modernità. Si deve allora aprire una riflessione educativa su come reintrodurre il senso civico e il gusto per la politica; riflessione educativa che individui soluzioni concrete per controbilanciare lo strapotere del pensiero economico e l’invadenza della tecnica; è la soluzione non può che essere aumentare la presenza delle humanities, le scienze dell’uomo, sull’uomo e per l’uomo. Bisogna ridare dunque centralità alla sapienza antica, che arricchisce la conoscenza di gusto, sapidità oltre che di valori morali, che insegna a ricercare le informazioni e le idee non solo sane e nutrienti ma anche gustose, fornendo una prospettiva diversa, più ampia al problema delle fake news e a possibili soluzioni. E inoltre bisogna saper leggere gli indizi per anticipare il futuro che già si manifesta. Ciò che è sempre più evidente è che la visione lineare del tempo del progresso alimentato dall’innovazione tecnologica si è interrotta; o meglio che quella crescita lineare non era che la fase ascendente di un ciclo. Il grande filosofo Vico lo aveva capito molto tempo fa e noi stiamo scoprendo solo oggi la concreta possibilità di essere entrati in un “ricorso” storico, con il rischio reale di tornare ai “tempi barbari”. Questa riscoperta dei corsi e ricorsi della storia può dare però una nuova centralità alla terza età. Anche qui è preziosa ma per ora inascoltata l’intuizione di Papa Francesco. La loro rilevanza — economica e sociale — nell’Occidente e soprattutto in Italia è evidente anche se poco discussa se non nelle sue dimensioni problematiche: l’anno scorso, in Italia, la popolazione “over 60” ha superato in numero quella “under 30”. Ma se il tempo non è lineare ma ciclico, se molti fenomeni ritornano — anche se con forme diverse —, l’esperienza di chi ha già visto e vissuto, la saggezza cioè degli anziani, può ritornare a essere utile. Per questi motivi una delle sfide economiche e sociali sarà costruire un nuovo patto intergenerazionale dove il coraggio e l’esuberanza giovanile potranno essere mitigati e complementati dalla saggezza dei senior, riconoscendo finalmente — come ha mirabilmente notato Hilman nel suo Senex et puer— che junior e senior non sono altro che due facce dell’umano: «L’anima non è né giovane né vecchia, o meglio, è entrambe le cose».

Lei ha scritto un paio di libri sul “lato oscuro del digitale” non sempre compresi. Come si può contrastare lo strapotere della tecnologia?

Il fenomeno — soprattutto nel digitale — sta assumendo proporzioni preoccupanti. I lati oscuri del digitale sembrano dovunque: sono molto diversi (non riconducibili a semplici casistiche), nascono e si propagano ognidove e soprattutto sembrano incontenibili.

Le cause di questa esplosione sono molte: un po’ perché la tecnologia è sempre più potente e diffusa (e quindi potenzialmente pericolosa) ma soprattutto perché se ne è parlato pochissimo. Vuoi per l’omertà dei fornitori di soluzioni digitali, vuoi per l’incompetenza velata di “buonismo utopico” di molti sedicenti “evangelisti” del digitale, vuoi per la paura di molte grandi aziende di ammettere di essere cadute in qualche trappola digitale.

Dobbiamo però ricordare che il lato oscuro è strutturale alla tecnologia, ne è una componente inseparabile. Notava Paul Virilio che «la tecnologia crea innovazione ma — contemporaneamente — anche rischi e catastrofi: inventando la barca, l’uomo ha inventato il naufragio, e scoprendo il fuoco ha assunto il rischio di provocare incendi mortali». Per questa sua specificità non è facile eliminare il lato oscuro perché, come nel caso della zizzania, si rischia di sradicare anche il grano.

La soluzione va cercata non al di fuori ma nella tecnica stessa e nei suoi processi di selezione, incentivazione e adozione: «Dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva» scriveva Friedrich Hölderlin. Serve dunque il pensiero critico, la capacità di discernimento, una forma più adulta e completa di etica della tecnologia, che richiede non solo una comprensione fine della tecnologia e delle sue dinamiche ma anche dei processi sottesi. Ad esempio i criteri di finanziamenti della ricerca, le regole di validazione di una “buona” tecnologia, le modalità di formazione dei decisori e degli utilizzatori. Prendiamo quest’ultimo tema. Oggi serve educazione al digitale e non semplice addestramento all’uso di specifiche procedure. I decisori devono comprendere non solo le funzionalità messe a disposizione ma anche le implicazioni, gli effetti collaterali, le pre-condizioni di utilizzo, i lati oscuri… Nel frattempo, però, la politica e i media hanno sdoganato l’espressione “alfabetizzazione digitale” che non punta certo a questo cambiamento di mentalità; anzi genera fra manager e imprenditori (anche dello stesso settore digitale …) tre tipi di comportamenti problematici:

— essere un credulone: non sapere di non sapere, fidandosi del proprio intuito, di quanto si leggiucchia sulla Rete e rifiutando il sapere scientifico e il parere dei “veri esperti”;

— fare lo struzzo: non voler vedere le crescenti dimensioni problematiche del digitale e considerare marginali i possibili rischi e impatti negativi;

— fidarsi solo della tecnica: pensare che il digitale e Internet siano una grande piattaforma (e cioè strumento) tecnico che possa essere gestito semplicemente padroneggiandone i comandi principali; e se qualcosa non funziona, una nuova tecnologia risolverà il problema.

Un’efficace Digital Transformation dipende infatti quasi interamente dal rafforzamento (e centratura) dei fattori umani a valle della Digital Automation, cioè dell’introduzione in azienda di strumenti e ambienti digitali. Dipende, cioè, dalla possibilità di mobilitare competenze digitali di qualità, competenze che vanno molto oltre la banale alfabetizzazione digitale e richiedono una vera e propria educazione al digitale. Dobbiamo dunque puntare a una tecnica che potenzi l’uomo e non lo sostituisca. Nei meccanismi di incentivazione e orientamento nello sviluppo della tecnologia (digitale ma non solo) si scontrano infatti due ideologie: quella di tipo industriale, che vorrebbe sostituire l’uomo con macchine, robot e intelligenza artificiale, e quella di tipo artigianale, che invece vede la tecnologia come potente utensile che rafforza la mano, non la sostituisce.

Ma i valori artigiani resistono nell’era della tecnica e del digitale diffuso?

Resistono e molto. I valori artigiani sono sempre contemporanei, poco nostalgici, stanno stare al passo con i tempi. È il loro racconto, o i pregiudizi e stereotipi a essi collegati, che spesso li deformano e tendono a rappresentarli come il retaggio di un passato polveroso. Nulla di più sbagliato. La metafora del fare artigiano, dell’uomo industrioso ha radici antiche e potenti. Dio vasaio, Dio che “formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale, e l’uomo divenne persona vivente”, Giuseppe falegname. L’arte che dà forma e vita agli oggetti inanimati è tipicamente artigiana e si arricchisce con le nuove tecnologie, purché siano quelle giuste e usate in modo corretto: purché siano, potremmo dire, antropologicamente armoniche.

Papa Francesco ha usato spesso metafore collegate al mondo artigiano: «La formazione è un’opera artigianale, non poliziesca. Dobbiamo formare il cuore». «Dio prepara la strada per ciascun uomo. Lo fa con amore: un “amore artigianale”, perché la prepara personalmente per ognuno». Particolarmente potente è la beatitudine relativa agli artigiani di pace: «Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia». Infatti il valore artigiano non si esprime solo con il lavoro delle mani. Camillo Olivetti, straordinario padre di un altrettanto straordinario Adriano, notò che «non vi è divisione netta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale: tutti i lavori, se fatti bene, richiedono uno sforzo d’intelligenza».

D’altra parte se entriamo nel profondo di una parola molto legata al valore artigiano — tradizione — essa viene, come noto, dal latino tradere e indica la consegna di qualche cosa di importante (un ordine precostituito, un sistema preesistente), la cessione del suo possesso a un altro; indica dunque una continuità — nella cosa ceduta — ma sempre un cambiamento; perciò richiede uno “slegarsi dal passato per prepararsi al futuro” e non l’“attaccamento nostalgico al passato che vuole essere riproposto così com’era per il presente e futuro”. Pertanto la consegna di una tradizione richiede sempre una traduzione, espressione simile che deriva a sua volta dal latino trans e ducere e indica il portare oltre. Tradurre vuol dire dunque comprendere tutto quello che un testo dice e riportarlo con completezza ed efficacia in un’altra lingua, lontana magari nel tempo e/o nello spazio (trans loca et tempora ducere) ma senza perdere il significato autentico. In questo processo vi è sempre, come noto, un rischio: il tradimento — che peraltro nell’italiano antico era detto tradigione — che sorge quando il vecchio sistema di regole viene abbandonato a favore della novità. Questa semplice analisi etimologica ci suggerisce che la tradizione ha sempre nel suo processo un fare innovativo, una traduzione e adattamento al nuovo contesto. Ma quando la traduzione, la consegna, non tiene più conto delle origini — è quindi radicale, disruptive — allora diventa tradimento. Per questo motivo tradizione artigiana è innovativa ma cresce con l’uomo, i suoi valori, le sue capacità, mentre l’innovazione radicale, quella esclusivamente tecnologica, rischia di essere alienante, riducente: un vero e proprio tradimento.

Ma quindi si può innovare anche senza capitali, laboratori e super-laureati?

Certamente sì. Ci sono molte forme di innovazione e tutte necessarie. La sfida dell’Italia non è l’innovazione radicale, nella ricerca di una nuova molecola per un farmaco, nella progettazione di un nuovo dispositivo iper-tecnologico e globalizzato. La nostra sfida è modernizzare un sistema produttivo fatto di piccole, piccolissime imprese e professionisti e diffuso sul territorio; è di proteggere, valorizzandolo, il nostro patrimonio culturale, ricchissimo, meraviglioso ma fragile; è di tutelare la diversità biologica e la ricchezza enogastronomica e il loro essere incastonate in un paesaggio fortemente antropizzato. Per questi motivi serve un’innovazione che fiorisca dalla tradizione e non ne sia la contrapposizione. Non si tratta di non credere nella conoscenza scientifica — sempre più importante, necessaria — ma di attingere ai suoi saperi in modo critico, di metterla in discussione, di rileggerla da una diversa prospettiva facendo domande spiazzanti e soprattutto di rendersi conto che la tecnologia, la scienza è solo uno degli ingredienti dell’innovazione e della sostenibilità. Anche i contesti d’uso e le sfide sociali contribuiscono ad alimentare il pensiero innovativo. È sempre più necessario “fare i conti con la dismisura”, per usare il suggerimento che Elena Granata propone nel suo ultimo libro e imparare dalle straordinarie — quasi incredibili — innovazioni urbane avvenute a Bogotá, a Medellin, a Constitución. Vijay Govindarajan, professore di Harvard anche lui “venuto dalla fine del mondo” ha coniato una espressione efficace per indicare questa innovazione dal basso, fuori dagli schemi, che parte dai bisogni estremi e non dalle possibilità offerte dalla tecnica: reverse innovation. Un’innovazione che inverte la direzione e non si origina più dai laboratori delle multinazionali ma dai contesti urbani più sfidanti.

La crisi della società italiana, evidenziata dall’emergere del tema delle identità, pone ai cattolici una responsabilità: cosa possono fare, quale il ruolo dei cattolici nell’attuale situazione italiana ed europea?

Credo che il ruolo principale sia aiutare a ricostruire un’identità — sia come individui che come collettività e come parte del creato — che includa e sia generativa. Mi viene in mente il progetto olivettiano che ha sempre visto Ivrea come luogo identitario, terra dove le radici potevano trovare nutrimento e protezione e dove una parte dei frutti generati dall’albero ricadevano in modo naturale restituendo il nutrimento ricevuto. Ma la forza di quelle radici consentiva la crescita dei rami oltre lo spazio del tronco e le foglie e i germogli — grazie al vento — si propagavano ben oltre, portando fertilità e vita in altri luoghi.

Credo che l’identità vada riletta non come corazza protettiva ed escludente ma come appiglio che consenta il dialogo e l’apertura verso le diversità senza timore di cadere spersonalizzandosi. L’identità si manifesta grazie a un progetto che unifica e allora l’esortazione di Papa Francesco nella messa di inizio Pontificato ci fornisce, ancora oggi, un’indicazione preziosa: essere “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura. Un progetto di vita, dunque, che ci consente di superare — gettandoci oltre — gli ostacoli e i pericoli del sovranismo e dei “prima gli …”.