Diceva Mino Martinazzoli, uno dei più raffinati esponenti della sinistra Dc, che “nella prima repubblica c’erano i leader, nella seconda ci sono soltanto più i capi”. Lo diceva all’inizio degli anni duemila e non ha avuto il tempo di conoscere la classe dirigente approdata a Roma nel 2013 per non parlare – ahimè – di quella andata al governo nel 2018. Come sempre una riflessione secca ma profondamente ed intrinsecamente vera. Perchè, in effetti, la tanto biasimata, contestata e delegittimata classe dirigente della lunga e tortuosa prima repubblica, almeno quella della Democrazia Cristiana, era diffusa, radicata e plurale. Certo che c’erano i leader.

Di più, c’erano gli statisti. Categoria che oggi si guarda solo più con il binocolo. Ma era una classe dirigente che non amava appaltare tutto al capo, che non legava il suo destino al salvatore della patria. E quando c’era qualche tentativo cesarista e autoritario all’orizzonte, scattavano i contrappesi non solo dell’organizzazione democratica che presiedeva quel grande partito ma anche, e soprattutto, le regole statutarie e normative che impedivano quella deriva e quella degenerazione.

Il tutto perchè si credeva nel modello democratico del partito e nella leadership cosiddetta diffusa. Tanti tasselli che costituivano un mosaico credibile e persin armonico. Poi sono arrivati, per dirla con Mino, i “capi”. E quando arrivano i capi semplicemente non si discute più. Comanda lui. Punto. Il partito si identica con la persona – l’ormai celebre partito personale – e tutto ciò che il partito trasmette alla pubblica opinione deve coincidere perfettamente con l’indole e la personalità del capo.

Il dissenso interno è bandito alla radice e quando c’è viene letto ed interpretato come un intralcio ed un ostacolo per lo stesso progetto del partito. La democrazia dell’applauso sostituisce il seppur faticoso, ma necessario, confronto interno. E le classi dirigenti del partito non sono nient’altro che il prolungamento dei voleri e dei desideri del capo. E la battuta di Martinazzoli precedeva ancora l’irruzione dei populisti – al governo o alla opposizione poco importa – non essendo più tra noi dal lontano settembre 2011. Ma la situazione non è migliorata. Anzi, è peggiorata. E di gran lunga.

Ho voluto ricordare quella battuta perchè sono e resto profondamente convinto che il capitolo della classe dirigente, della organizzazione democratica del partito e la necessità di non alimentare in modo sempre più spregiudicato il profilo personale del partito stesso, sono temi che non possono più essere semplicisticamente e banalmente elusi o aggirati. Soprattutto da parte di coloro che arrivano da una tradizione democratica e non populista, partecipativa e non verticale, collegiale e non oligarchica. Insomma, dalle culture democratiche e costituzionali.

A cominciare dalla tradizione cattolico democratica e popolare. E questo perchè il monito di Martinazzoli non può cadere nel vuoto. Soprattutto in una stagione politica che, almeno così pare, è destinata a ridisegnare le coordinate del suo futuro dopo la terribile emergenza sanitaria che ci ha colpiti. E che non è ancora affatto alle nostre spalle. E se il buongiorno si vede dal mattino, non può non partire dalla organizzazione concreta dei suoi attori principali, cioè i partiti – oggi per lo più semplici cartelli elettorali o partiti del capo – e dalle sue regole interne, dalla credibilità ed autorevolezza della sua classe dirigente e da come si costruisce e si definisce un progetto politico. Per questo il monito di Martinazzoli continua ad essere di una bruciante attualità.