I cattolici, Achille Grandi, il lavoro e i diritti individuali

Per gentile concessione dell’autore, riproponiamo ai nostri lettori l’articolo apparso ieri sull’Huffington Post in occasione dell’anniversario della morte di Achille Grandi (27 settembre 1946), il leader dei “sindacalisti bianchi” nella organizzazione unitaria dei lavoratori (Cgil), costituitasi all’indomani della seconda guerra mondiale. Anche questo ricordo s’inserisce nel dibattito sulla questione “cattolici e politica”, meritevole di sempre nuovi aggiornamenti.  “Non dimentichiamoci – scrive Rossini nella presentazione sulla sua pagina Fb  – di continuare a pensare (e a fare). A partire dal lavoro: perché senza dei forti, generosi e organizzati diritti sociali, anche i diritti  individuali sono più deboli”.

 

Roberto Rossini

 

Il 27 settembre sarà (è per chi legge, ndr) il 75mo della morte di Achille Grandi, cattolico, vicepresidente dell’Assemblea costituente. Cosa direbbe, oggi, Achille sulla presenza dei cattolici in politica? Intanto osserverebbe che nei ruoli apicali e strategici della Repubblica ci sono dei cattolici; che molti sindaci di importanti città sono cattolici o si dichiarano cattolici; che abbiamo una serie di soggetti sociali che sono cattolici. Ma – e vedo alzarsi il sopracciglio – forse vorrebbe farci capire che manca ancora qualcosa, che manca “qualcosa di cattolico” nella vicenda attuale di questo Paese.

 

Siamo abbastanza sicuri che non vedrebbe bene la nascita di un partito confessionale cattolico. Però si interrogherebbe sulle forme moderne attraverso le quali i cattolici possono oggi partecipare al dibattito pubblico, essere presenti nello spazio pubblico. E forse giungerebbe anzitutto a dirci che per saperlo occorre studiare – lui, un autodidatta -, che occorre maturare un punto di vista per saper vedere, giudicare e agire – lui, che fece l’Aventino perché aveva già capito la pericolosità dei fascisti: forse ci direbbe che per i cattolici impegnati in politica oggi si deve riprendere a studiare, per svelare le dinamiche economiche e sociali che comprimono la persona e le comunità, che riducono il bene comune a qualche forma di benessere individuale o collettivo. Forse ci direbbe che dobbiamo riprendere la nostra azione civile e politica a partire dal lavoro e dai lavoratori: perché i diritti individuali sono più fragili se non sono sostenuti dalla forza vigorosa, generosa e organizzata dei diritti sociali. A partire dal diritto al lavoro: sì, siamo un po’ laburisti, tra il sindacale, il politico e il sociale.

 

Forse ci direbbe che proprio per questo, più che una nuova edizione di Todi (la suggestione di rifare il partito cattolico), servirebbe una nuova edizione di Camaldoli (lo sforzo di definire una piattaforma programmatica): studiare per elaborare un codice che riconsideri tutta la tradizione del pensiero cristiano alla luce dei mutamenti che stiamo attraversando, a partire dalla transizione digitale. La transizione digitale, la povertà, la sofferenza, la guerra e l’economia della guerra, le donne, la vita e la morte: qual è la nostra parola? Qual è la nostra azione?

 

È solo dall’esperienza e dal pensiero che poi possono nascere le organizzazioni. E lui di organizzazioni se ne intendeva: ha fondato due sindacati (la Cil e la Cgil unitaria), un partito (il Partito Popolare, con Sturzo), una grande associazione (le Acli). Grandi sapeva che qualunque pensiero va infrastrutturato: alla fin fine, la politica non è che l’organizzazione delle speranze. Grandi era una persona concreta: un punto di caduta, prima o poi, occorre averlo. Ma senza un obiettivo, senza un grande desiderio, senza un grande compito le persone non si mettono insieme. Dunque prima di rispondere alla domanda “che partito fare” bisogna rispondere al “che fare”. Il resto – a volte – si fa da sé.