Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

Se si apre un qualsiasi dizionario, la voce “cooperazione” sottintende solitamente un rapporto con il quale più individui si uniscono per assicurarsi il diritto di godere dei servizi prodotti dall’accordo tra essi stipulato. Questa definizione esprime concettualmente la parità di rapporto per cui, tra i vari soggetti o attori che dir si voglia, vi sono interessi comuni e interdipendenti. Ne consegue che la cosiddetta cooperazione allo sviluppo, costituendo un “ponte tra i popoli”, dovrebbe essere recepita anche nella sua dimensione bilaterale di reciprocità, in quanto scambio tra le parti.

Sta di fatto che parlando di Africa, viene quasi istintivo un po’ a tutti immaginare la progettualità in termini univoci, quasi dovesse essere tutta rivolta sul campo, “in terra di missione”, laddove il moltiplicarsi delle emergenze umanitarie è sintomatico del malessere d’intere popolazioni. Eppure, questa visione non solo è riduttiva, ma mortifica l’immagine dell’Africa rendendola per lo più negativa e agglutinata. Ciò esige non solo una critica nei confronti del sistema massmediale che, riciclando i soliti stereotipi paternalistici all’insegna della carità pelosa, danneggia le società africane, ma anche l’impegno a promuovere una ricerca positiva sul patrimonio di verità di cui esse sono portatrici. 

In questa prospettiva, il tema della diaspora africana è centrale, sebbene solitamente venga trattato in Europa stigmatizzando gli aspetti negativi connessi all’emorragia di capitale umano. Sarebbe invece opportuno individuare le potenzialità che essa rappresenta in termini di crescita economica e di sviluppo per i paesi africani. Si tratta di uno straordinario deposito di intelligenza, costituito da intellettuali, professionisti e studenti universitari, che potrebbe essere proficuamente messo a disposizione per il progresso dell’intero continente e del mondo, anche in termini di risorse finanziarie e di trasformazione del capitale cognitivo in capitale economico. 

Secondo la Revised migration policy framework for Africa and plan of Action 2018 – 2027 dell’Unione africana (Ua), sono circa 70 mila i professionisti qualificati che lasciano l’Africa ogni anno. Stiamo parlando di un continente con circa 10-12 milioni di giovani che, ogni anno, si uniscono alla forza lavoro africana. Purtroppo il continente è in grado di creare annualmente solo 3 milioni di posti di lavoro. Nel 2016, il World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale (Fmi) ha segnalato un numero crescente di migranti africani nei paesi dell’Ocse. Stimato a 7 milioni nel 2013, il numero totale di migranti africani nei paesi Ocse potrebbe salire a 34 milioni entro il 2050. La migrazione contribuisce, comunque, alla crescita e allo sviluppo economico inclusivo e sostenibile sia nei paesi di origine che di destinazione. Nel 2017, i flussi di rimesse verso paesi a basso e medio reddito, molti dei quali africani, hanno raggiunto i 466 miliardi di dollari, oltre tre volte l’importo di Aps (Aiuti pubblici allo sviluppo) ricevuto nello stesso anno. Ciò non toglie che l’impatto della fuga dei cervelli manifesta i suoi effetti collaterali, ad esempio, nel settore sanitario. In molti paesi africani, la maggioranza dei medici autoctoni risulta residente all’estero. Ciò pone problemi non indifferenti nel garantire il diritto alla salute, considerando che secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, la media africana (calcolata nel periodo 2012-2016 per 26 paesi per i quali i dati sono risultati disponibili) è di 0,45 medici per 1.000 persone. 

Ma per invertire la fuga di personale qualificato — meglio conosciuta con il nome di brain drain — attraverso l’emigrazione da un paese verso altri, potrebbe davvero essere strategico il ruolo delle politiche di cooperazione allo sviluppo dei Paesi industrializzati. S’impone in effetti l’esigenza di un salto di qualità nelle forme d’intervento solidaristico, investendo risorse nella prevenzione di ogni genere di calamità. Siamo un po’ tutti avvezzi ai laconici appelli, lanciati con scadenze stagionali, tre, quattro volte l’anno, per scongiurare le solite carestie di sempre: dal Sahel al Corno d’Africa, o ancor più a meridione, nel settore australe del continente. Gli aiuti di emergenza dovrebbero, in primo luogo, contribuire a liberare le popolazioni dalla loro dipendenza. 

A tal fine, non possono prescindere da progetti che mirino a premunire le popolazioni colpite da future penurie alimentari e altre pandemie. È per questo che sarebbe necessaria una maggiore valorizzazione dell’intelligentia africana, nella consapevolezza che Nord e Sud del mondo hanno un destino comune. Non a caso, l’antropologo Louis Dumont riteneva che la differenza fondamentale tra le società tradizionali e quella moderna consista proprio nel fatto che nelle prime i rapporti più importanti sono quelli tra esseri umani, mentre nella seconda tutto risieda nei rapporti tra uomini e cose. Il dialogo interculturale tra Africa e Occidente pertanto potrebbe aiutarci a comprendere il valore della reciprocità e cioè che loro hanno bisogno di noi, tanto quanto noi abbiamo bisogno di loro.