Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Edoardo Rialti

«Ci sono re e regine segrete, monarchi e sovrane silenziosi la cui grandezza non sta affatto nel successo e nel riconoscimento pubblico, ma nella fedeltà silenziosa a un ideale umano, a una testimonianza che, intercettata da un animo desto, ha la capacità di restituire alla trama stessa dell’esistenza quotidiana la sua gloria perenne ma tanto facilmente negletta, quello splendore che per Pindaro corrispondeva alla fugace sovrapposizione della vita umana e quella divina. Cristina Campo così definiva il suo amato Boris Pasternak, ma una simile corona si potrebbe benissimo offrire a lei stessa. La sua è una voce deliberatamente altra, “inattuale” direbbe Nietzsche e quindi straordinariamente necessaria com’è sempre la voce autentica della poesia, che rifugge dai facili applausi, dal sentimentalismo superficiale a cui i social l’hanno tanto dolorosamente ridotta, e invece è sempre una commistione della brezza leggera colta dal profeta Elia e del ruggito dell’angelo dell’Apocalisse. Il suo desiderio per un epitaffio che recasse scritto «Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno» riassume la vocazione di tutta una vita, e costituisce un salutare contro veleno alla banalizzazione della comunicazione nel mondo contemporaneo che consente di tornare alle radici della scrittura, della lettura, e quindi della comunicazione stessa, quella magia che ci permette di dialogare attraverso lo spazio e il tempo, come la definì Peter Kreeft, tra vicini di autobus o attraverso i secoli.

Come affermò Alberto Spina, «l’arte di scrivere presuppone l’arte di leggere, e l’arte di leggere a sua volta reclama la difficile, impervia arte di ereditare» e Cristina Campo, che iniziando a conversare con una nuova conoscenza domandava subito «Cosa sostiene la sua vita? Ossia cosa sta leggendo?» sarebbe stata profondamente d’accordo. La sua vita e la sua scrittura sono una lunga, costante ricerca delle proustiane sources de Vivonne, un percorso a ritroso “dalle foci alle sorgenti” come nella poesia del giovane Luzi, per tornare a quella fonte discreta d’acqua pura che costituisce il cuore d’ogni esperienza autentica, ma è anche una lunga galleria di ritratti amanti, o, quanto meno da principio, un altare come quelli commisti dei romani imperiali, sui quali si veneravano al tempo stesso Socrate, Iside e Cristo. Nel corso del tempo, quelli che anche Flannery O’Connor avrebbe definito «gli occhi che chiedevano tutto» del Pantocrator bizantino avrebbero bruciato e invaso ogni altro spazio, ogni altra lealtà.

Il mio debito verso di lei è di quelli che non si pagano. Ci sono stati momenti nei quali l’ho sentita più contemporanea di volti che incrociavo quotidianamente. Lo posso solo accennare, abbozzare. Lo scorso anno, in mesi di grande travaglio interiore, sono partito per una settimana di silenzio a Parigi, e ovunque mi recassi avevo sempre con me una sua fotografia, dono di un amico poeta, come un talismano, o i dagherrotipi che i soldati custodivano in battaglia. Un gesto semplice e perfino infantile, ma che per me accennava a una dinamica interiore complessa e importante, espressa assai meglio da Richard Blunck su Nietzsche e Céleste Albaret su Proust.

I grandi artisti e pensatori che amiamo e ammiriamo sono presenze e testimoni che non desideriamo semplicemente leggere: desideriamo vivere con loro, camminare con loro, guardare con loro, giacché dentro e oltre ogni parola e gesto ci testimoniano uno stile di stare al mondo, un’arte di esistere. Lei stessa lo affermava di talune foto che costituivano delle piccole icone d’un certo ideale umano, come quella celebre di Checov col cagnolino. La vita è arte, e l’arte è vita, e l’esistenza di Vittoria Guerrini (1923-1977), ossia Cristina Campo, tra Bologna, Firenze e Roma descrive una parola che, sempre minata dalla malattia, muove i primi passi nella luce dorata dei giardini fiabeschi della sua infanzia, attraversa un’adolescenza fremente e inquieta sotto i bombardamenti, la giovinezza fieramente bella e appassionata delle tante battaglie culturali, e una maturità che conosce grandi consolazioni e terribili strazi, l’amore per Dio e Elémire Zolla, ma anche il rapporto tempestoso con quest’ultimo, le angosce per la vituperata riforma liturgica nelle lingue nazionali e la battaglia al fianco di Lefebvre, “l’intervento Ottaviani”. Un viaggio che si apre nella grazia e l’eleganza e si spegne prematuramente, dopo aver sperimentato a lungo la morsa stritolante dell’“orribile nodo”, l’angoscia e la depressione.

A ripercorrerla, si ha l’impressione di assistere al forgiarsi e saggiarsi d’una autentica spada di Toledo, una lama tagliente, che però sa ferire anche gli amici e perfino se stessa, con alterigia, o al progressivo svuotarsi d’un vasto palazzo, finché non resti abitata una sola stanza vuota, quasi fosse un eremo. Come scrisse la Yourcenar di Kavafis (la cui esistenza fu per così dire l’opposto ma non la negazione di Cristina Campo) «qualunque cosa facciamo, ritorniamo sempre alla cella segreta della conoscenza di se stessi, insieme stretta e profonda, chiusa e traslucida, che è spesso quella dell’edonista, o dell’intellettuale, puro». A proposito della Campo, l’amico Mario Luzi parlò d’una specie di austerità tremenda, e ammise che c’era più che qualcosa di lei nella protagonista del suo Ipazia, dedicato significativamente al Leone Traverso che con Cristina ebbe una relazione importante e difficile. E fu proprio Traverso che, in una lettera dove cercava di spiegare perché un uomo come lui non riuscisse a stare con una donna come lei, esplicitò che talvolta le persone non fuggono dai demoni che scorgono negli altri (i diavoli altrui sono spesso una scusa per indulgere nei propri) ma dagli angeli, dalla purezza, dall’intensità, dalla costanza. Aveva ragione Dante a svenire davanti a Beatrice che lo rimprovera aspramente. Traverso parla dell’intensità senza sconti di Simone Weil e aggiunge: «Quella è la gente del tuo paese — come dicevi — non io: quell’impeto raccolto, quella perseveranza oltre la speranza, quel respiro anche nell’angustia più tremenda, voluta. Veramente, di fronte a simili esemplari umani, ci si domanda che ci stiamo a fare qui noi (io), se non a dar peso alla terra: affannati solo al nostro cammino di formiche ostacolate, affranti da briciole». Anche un’amica confidò: «Era difficile farle compagnia. Però aveva dentro una fiamma. Bastava toccare un argomento che le stava a cuore per vederla accendersi. La parola mistico viene da muein che vuol dire accennare. Il mistico è colui che fa intravedere ma non è mai esplicito. In questo senso Cristina era una mistica. Avevi l’impressione che dietro ci fosse qualcosa di enorme».

Questa vastità che sovrasta e compenetra le sue parole e i suoi gesti è ben più che il leitmotiv della sua produzione. Si tratta più di un clima emotivo e spirituale, di un orizzonte dentro il quale collare i singoli oggetti, di un mistero sempre accennato, appunto. È il fuoco segreto che anima le sue lettere, che giustamente la biografa Cristiana De Stefano definì tra le più belle della letteratura italiana, al pari degli epistolari di Tasso e Leopardi. A ogni passo vi si incontra una straordinaria delicatezza e attenzione, per sé, per i ritmi della propria vita interiore, e per gli altri, dagli amici d’una vita agli incontri d’un attimo, in stazione o in chiesa, dal Corrado Alvaro che la Campo tenne agonizzante tra le braccia, sussurrandogli che ovunque fosse caduto, da questa o quella sponda della morte, non avrebbe trovato altro che amore, alla popolazione in lotta di Cipro o ai senzatetto di Roma. È in una lettera a Traverso che la Campo si ritrae improvvisamente dalla possibilità che alcuni suoi scritti possano entrare nei cerchi concentrici delle recensioni, come se persino questa tenuissima attenzione mediatica la privasse dell’unica cosa che conta, dell’unico ossigeno che consente di respirare: «Ti ho già detto mille volte, credo, che la letteratura (parola orribile) non è un fine per me, non uno scopo, ma solo un mezzo, uno dei modi (infiniti) di vivere con libertà e solitudine… per piacere, Leone, aiutami a conservare il mio incognito, a scrivere ancora con piacere, aiutami a rimanere nel silenzio e nella pace che sono la sola libertà a cui io tenga». All’amica d’una vita, Mita, che attraversava un momento di difficoltà emotiva, suggerì: «Non credi che potrebbe farti bene — e un giorno aiutarti molto a comprendere — se tu scrivessi in un quaderno sigillato (per te sola, con l’idea di bruciare tutto tra un anno) tutto quello che vivi? “E si tratta precisamente di vivere tutto” disse Rilke, che qualche volta era molto grande anche lui. Quello che stai vivendo è prezioso. Scrivi un diario senza colori — ma tutto ci dev’essere, tutto. E dimentica il mondo, là dentro; e te stessa, e i tuoi amici — e Dio stesso. Di’ tutto e nient’altro. È importante». Ma vi si legge anche l’indignazione per chi, sprovvisto delle sue risorse, viene privato della bellezza necessaria a tutti da un mondo che devasta e impoverisce la nostra vita.

Certe sue pagine sulla prigionia spirituale dei quartieri moderni nelle periferie romane sembrano scritte da Pasolini, così diverso eppure così affine nel denunciare la fine di un mondo spirituale: «In quelle poche strade oscure vidi l’Inferno, ma l’inferno quale neppure Dio ma solo l’uomo nella sua demenza potrebbe immaginarlo perché là non c’era neanche il dolore, neanche il fuoco e il digrignare di denti, c’era semplicemente il Nulla, case di mille finestre dove non arriva mai il sole, dove nascono bambini che non hanno mai visto un cavallo, non hanno mai respirato altro che nafta, non hanno mai udito altro rumore che quello della sega circolare… se vedono un fiore, lo vedono alle porte del Verano». I suoi saggi consentono di affermare senza riserve che ci troviamo davanti alla più grande prosatrice italiana del Novecento, levigati da un’eleganza che cancella il suo stesso sforzo, come raccomandava la sprezzatura rinascimentale. Vi canta le lodi dei suoi “imperdonabili” (per il gusto contemporaneo, che a suo giudizio non può digerire un Tomasi di Lampedusa più di quanto possa comprendere i Padri del Deserto) testimoni che un altro sguardo, un’altra altezza è ancora raggiungibile, «che è bello avere un ideale impossibile».

Pasternak, il re nascosto che insegnava a comporre poesie aiutati dalla morte, Simone Weil, la mistica che le dimostrò che “si può diventare geni”, Emily Dickinson, la contemplativa che decise di frapporre un paravento tra sé e il resto del mondo, John Donne, il metafisico sensuale, sono solo alcuni ospiti del suo palazzo interiore, che non comprende esclusivamente persone ma anche luoghi e dettagli come l’austera, essenziale bellezza delle finestre fiorentine, le mazurke di Chopin o i cancelli dei giardini emiliani, oltre i quali i nonni sonnecchiano nella pennichella estiva. Ai suoi occhi Proust è il cavaliere d’una Quest medievale che ha l’ambizione di salvare un mondo intero («un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte… chi oggi non è conscio di questo, non è poeta d’oggi»), una vocazione in cui da sempre si iscrive anche la sua, come testimonia una lettera al padre durante la guerra: «Voglio tentare tutto, papà caro, e vedrai che, a Dio piacendo, non ti deluderò! Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi».

È il cuore non solo delle sue magnifiche traduzioni ma anche delle sue brevi ma splendide raccolte poetiche, dedicate alla trascuratezza dolente verso l’essenziale che caratterizza troppo del nostro tempo, ai nessi che possono legarci nel tempo e lo spazio, alla tradizione personale che possiamo salutarmente “inventarci”, legando un nostro amore non corrisposto a un sarcofago egizio o camminando per la strada alla luce d’un passaggio della liturgia bizantina: «poiché tutti viviamo di stelle spente». In questo nostro mondo di prostituzione della comunicazione, disseminato di ghetti che inveiscono rabbiosamente gli uni contro gli altri, leggere Cristina Campo consente di riscoprire la gloria della complessità dei nostri sentimenti, pensieri e gesti, e in un clima banalizzante ribadire e difendere che taluni aspetti della nostra vita ed espressione sono difficili non costituisce un lusso, ma un autentico atto di sopravvivenza. In mezzo al clamore e al frastuono di tante sollecitazioni inutili e dannose, si può ancora vivere la poustinia raccomandata da Catherine Doherty, il deserto interiore, è ancora possibile compiere un cammino quotidiano all’unico livello che conta.

È questa, in fondo, parte decisiva della letteratura, aiutare a esercitare quella “versione laica della preghiera, che è l’attenzione”, come scrisse Benjamin di Kafka. È questa la consegna di Cristina Campo, quando, accompagnandoci in un giardino o nel silenzio d’una navata barocca, si volta e rivolge direttamente la parola: «siedi contro il muro, leggi Giobbe e Geremia. Attendi il tuo turno, ogni rigo è profitto. Ogni rigo del libro imperdonabile». Allora i segni riprenderanno a parlarci, perché l’universo non ha mai smesso di seminarli, tutti intorno a noi: «Si vede talvolta in un treno, in una sala d’aspetto, un volto umano. Che ha di diverso? Di nuovo potremmo dire ciò che quel volto non ha, ciò che i suoi occhi non tradiscono… nel treno, nella sala d’aspetto, essi gonfiano l’anima di gioia, di un accresciuto, appunto, sentimento di vita… Sono, in realtà, occhi eroici. Hanno guardato la bellezza e non ne sono fuggiti. Hanno riconosciuto la sua perdita sulla terra, e in grazia di ciò l’hanno guadagnata nella mente».

E nella marea fangosa di reazioni istintive, nella cascata di messaggi inutili e preconfezionati nei loro sentimenti, potremo riprendere anche noi a scambiarci diamanti, ricchi anche di tutto il silenzio che sanno accogliere, come in questa breve missiva di Cristina Campo a Traverso: «Caro Bul, ti scrivo gli auguri che non ho potuto farti al telefono. Sono affettuosi come sempre. Perché non dirmi che partivi? Ti avrei augurato buon viaggio; in più ti avrei dimostrato (col solo dirti “Pronto”) che avevo capito, ripensandoci, le tue parole di iersera. Non scrivermi, Bul. Non è necessario. Sii sereno».