I minori e l’uso delle armi

L’agghiacciante connubio “armi-minori” esiste anche fuori degli Stati Uniti

I giornali americani danno spesso enfasi a fatti che coinvolgono minori nell’uso delle armi come fossero giocattoli:  pare che l’azienda che fabbrica il fucile che ha colpito a morte una bambina produca circa 60.000 armi all’anno di quel tipo, pubblicizzate con lo slogan “Il mio primo fucile” in un sito che si chiama “L’angolo del bambino”, con numerose foto di ragazzini intenti a colpire bersagli di vario genere.  L’agghiacciante connubio “armi-minori” esiste anche fuori degli Stati Uniti pur non legato a una specifica normativa o a essa dedotto, quanto piuttosto connesso a una concezione proprietaria e schiavista dei bambini, della loro vita e della loro identità personale e sessuale. Basti pensare ai bambini-soldato e a quelli vittime delle mine, spesso usati come strumenti per sondare la pericolosità di un territorio e – per questo – orribilmente mutilati o uccisi; o ancora far mente locale alla soccombente e pregiudizialmente sacrificale condizione dei bambini di ogni età che vivono nei Paesi dove esistono da anni guerre devastanti o conflitti etnici, religiosi o civili tra opposte fazioni, anche di uno stesso popolo o nazione. 

Da un rapporto di Save the Children risulta che più della metà dei settantadue milioni di bambini che non hanno accesso all’istruzione, cioè oltre trentasette milioni, vivono nei Paesi colpiti dalle guerre (denominati CAFS) e sono spesso i destinatari finali del commercio di armi leggere mentre sei tra i Paesi del G8 (tra cui l’Italia) sono tra i primi dieci esportatori di armi nel mondo, l’84% delle quali sono le cosiddette “armi leggere”, largamente diffuse e utilizzate, con conseguenze devastanti, da minori. Indonesia, Costa d’Avorio, Sud-Sudan, Uganda, Iraq, Siria, Afghanistan, Burundi, Chad, Colombia, Nepal, Sri Lanka, Angola, Eritrea: sono Paesi che destinano alle spese belliche mediamente oltre il 4% del Pil e nei quali – secondo un Rapporto del Segretariato Generale dell’ONU – vengono addestrati e usati in azioni belliche bambini e bambine-soldato, queste ultime in alcuni casi esposte all’obbligo di prestazioni sessuali.

Quali strategie sono necessarie per arrestare questo coinvolgimento dei minori nell’uso delle armi e nella violenza? Dalla più ricca democrazia occidentale ai Paesi delle guerre la risposta è una sola: investire nella scuola, nell’istruzione, nell’educazione. Insegnare l’amore per gli altri esseri umani, per gli animali, per il creato. Perseguire le vie della pace, della tolleranza, della legalità. Questo implica una radicale e profonda riflessione sulle spese destinate alla crescita e modernizzazione dei sistemi scolastici, agli investimenti sulla ricerca educativa, alle risorse umane e alle dotazioni organiche e strumentali di cui fornire gli istituti scolastici. Sono ben note le resistenze a una decrescita degli investimenti bellici e militari, sia da parte delle forze politiche che nella stessa opinione pubblica, suggestionata dai pericoli derivanti dai rischi dei fondamentalismi, dell’odio razziale, della carenza di tutele in materia di sicurezza pubblica. E le giustificazioni-motivazioni di ordine tecnico per le enormi spese dell’apparato militare che riguardano il nostro Paese non sempre risultano esplicative e convincenti, specie in una fase di crisi globale e di depressione sociale: basti pensare alla ben nota, annosa vicenda degli aerei F35 e ai costi derivanti dal loro acquisto e manutenzione mentre una percentuale elevata di edifici scolastici non garantisce requisiti di sicurezza e standard di agibilità-abitabilità rassicuranti.

Se, per ora, l’uso delle armi leggere non sembra essere una consuetudine diffusa tra i giovani del nostro Paese, ci sono tuttavia altri indicatori che confermano una deriva di sovraesposizione verso il pericolo di comportamenti individuali, ma orientanti anche nel gruppo, indirizzati alla violenza o da essa condizionati. Ne indico alcuni.

  1. Pistole giocattolo, giochi militari, abbigliamenti bellici, oggetti di uso offensivo costituiscono materia per regali e aspirazioni prevalenti, fin dalla più tenera età.
  2. L’influenza dei programmi televisivi improntati alla violenza come prassi abituale e trama di comportamenti ricorrenti è pressante, pervasiva, pedagogicamente negativa: l’utenza di questi programmi – dai cartoni animati ai talk-show ai film d’azione, di guerra, di narrazione di profili criminali – spazia per età e genere, dai bambini e le bambine della scuola dell’infanzia agli adolescenti delle scuole secondarie di secondo grado. L’introduzione delle fasce protette non è deterrente sufficientemente dissuasivo poiché il leit-motiv è sempre quello della violenza come prevalente modello antropologico-comportamentale: un modello idealizzato e reso vincente, nell’ostentazione della forza come strumento di emergenza sociale, di successo tra i pari, di perseguimento del ‘lieto fine’.
  3. Si diffonde una cultura mass-mediologica negativa che genera solitudini siderali anche tra le giovani generazioni. Essa spiega che si fa e si ottiene giustizia solo attraverso l’uso della forza, mentre vengono ridicolizzate e valutate pregiudizialmente perdenti tutte le altre strade che passano dalle relazioni pacifiche e positive, dall’interlocuzione, dal dialogo. Non è difficile immaginare l’influenza degli interessi commerciali e industriali che sottende e ispira questi filoni e queste trame narrative, dove il prossimo è sempre antagonista, nemico da battere, fino alla sua eliminazione fisica, con una reiterazione e una disinvoltura veramente raccapriccianti. Per non parlare delle insidie del web e di tutta quella cultura virtuale, libera e disinvolta (nei temi e nei linguaggi) che vi circola.
  4. Anche la famiglia può essere scuola di violenza. Come sappiamo dall’esperienza giudiziaria dei casi, gran parte dei bambini che esplicitano comportamenti aggressivi hanno genitori che sono violenti con loro o assistono direttamente alle violenze in famiglia ove non ricevano addirittura agli stessi genitori l’insegnamento esplicito della violenza (“se ti picchia, picchialo”… “fai valere le tue ragioni”… “dimostrati uomo”). 
  5. Alla cultura della violenza va ricondotta anche l’esplosione delle slot-machines del gioco d’azzardo, frutti di massicci investimenti, che coinvolgono con una crescita esponenziale e drammatica i nostri ragazzi generando fenomeni di ‘ludopatia’, da non intendersi come nativa predisposizione genetica bensì come conseguenza patologica, malattia provocata da forti sollecitazioni esterne, non causa ma effetto. Per non parlare del fiume carsico di istigazioni alle violenze di ogni tipo che circolano nel web (giochi  pericolosi, violenze estreme, tik-tok, cyberbullismo ecc) con una agghiacciante facilità di accesso. Queste attrazioni da paese dei balocchi sono il peggiore maestro di vita, distruggono ogni scala di valori a fronte dell’illusione del facile guadagno, del successo e della ricchezza a portata di mano. I ragazzi risultano perdenti in partenza, schiavizzati al gioco come fonte di possibile, facile arricchimento e riscatto sociale. Occorre una forte reazione che costringa i legislatori, che finora hanno reso leciti e favoriti i giochi di azzardo, a produrre normative interdittrici, restrittive e dissuasive. 

Per contrastare queste forme che generano la violenza bisogna scoprire e intercettare la violenza alle origini e intervenire con tempestività con azioni positive. Ciò vale anche per l’Italia, pur in un contesto sociale caratterizzato da consuetudini e modelli di vita diversi da quelli di altre contingenze geografiche. Questo compito deve passare attraverso la scuola come principale “agenzia” di educazione alla pace, a cominciare dai rapporti ‘con’ e ‘tra’ gli alunni e dalle relazioni con le famiglie. 

La scuola deve sapere risolutamente indicare modelli educativi che portano al bene comune, al rispetto delle persone, alla tolleranza, alla legalità, alla conservazione attenta dei beni collettivi, e per questo dovrebbe impostare – accanto alla finalità della trasmissione dei saperi e alla sollecitazione verso la cultura come fattore generativo di crescita intellettiva, cognitiva e comportamentale – una solida educazione sentimentale. È necessario far leva sul controllo e sul corretto indirizzo dell’emotività, sull’uso del pensiero critico, sull’abitudine alla riflessione come premessa di ogni azione o comportamento, specie in ambito relazionale. Occorre per questo una stretta collaborazione e una solidale condivisione d’intenti tra famiglia e scuola. I “buoni sentimenti” infatti sono le chiavi che usiamo perché i valori abbiano accesso nella nostra mente e dimorino nel nostro animo, per darci un’identità rispettosa dell’identità altrui.

Dunque: istruzione e poi ancora istruzione, educazione, scuola pubblica come investimento dello Stato a favore delle giovani generazioni, garanzia del diritto allo studio, uguaglianza delle opportunità di partenza e compensazione delle difficoltà in itinere, percorsi formativi individualizzati per favorire la massimizzazione delle potenzialità di ciascuno, affinché vengano rimosse le cause di rischio educativo e di disagio scolastico. Questo implica investimenti sempre più elevati per adeguare i sistemi scolastici agli standard di competitività spesso imposti da agenzie formative esterne, per rendere sicuri gli edifici scolastici e aggiornati e per motivare gli insegnanti. Crescere in cultura per un Paese significa sviluppare la potenzialità insite in ciascun individuo, non lasciare che nessuno si perda per strada o ne imbocchi una sbagliata, mettere la persona al centro dei propri interessi, emancipare i valori del confronto, della condivisione e della solidarietà. Queste sono le armi pacifiche con cui combattere e auspicabilmente sconfiggere i mali dell’emarginazione, della solitudine, della povertà materiale e spirituale, delle violenze, che affliggono i bambini e i ragazzi del nostro tempo.

Non c’è più tempo da perdere: occorre un forte recupero di senso di responsabilità collettiva, bisogna che qualcuno abbia il coraggio di spezzare le troppe spirali perverse, ricominciando a parlare di senso del dovere, di identità, di cultura come strumenti di emancipazione sociale e di crescita e formazione individuale