I nuovi bisogni di salute. L’analisi de “Il Mulino”

 

Il Covid ha mostrato l’urgenza di potenziare il ruolo dei medici di medicina generale e del territorio. Un modello, tuttavia, che oggi deve fare i conti con una visione ospedalocentrica della sanità e con una sempre maggiore specializzazione della medicina.

Alessandra Ferretti

«La disponibilità di una buona assistenza medica tende a variare inversamente al bisogno della popolazione servita»: questo concetto venne illustrato su «The Lancet» nel 1971 da Julian T. Hart, medico di base che per trent’anni curò 2.100 persone di Glyncorrwg, villaggio di miniere di carbone nel Galles meridionale.

 

Hart elaborò la teoria dell’inverse care law (legge dell’assistenza inversa), che anni dopo si tradusse nella pratica nell’Anticipatory Health Care (sanità d’iniziativa), un modello assistenziale per la gestione delle cronicità che consisteva nell’identificare precocemente i problemi di salute trattabili nei pazienti in un sistema gestito dai medici di medicina generale, con ausilio di infermieri preventivamente formati, in un tempo minimo prestabilito di visita/ascolto, includendo l’assistenza a quei pazienti che di prassi non si sottoponevano ai controlli e grazie all’organizzazione di gruppi di persone con patologie croniche comuni.

 

Lo studio, che arruolò 1.800 pazienti e che venne effettuato nel pieno delle riforme liberiste del governo Thatcher, dimostrò una riduzione della mortalità (30%), un abbassamento della pressione media dei pazienti ipertesi e un calo della percentuale dei fumatori (dal 56 al 20%).

Il modello di Hart si basava sul potenziamento del ruolo dei medici di medicina generale e del territorio. L’esperienza del Covid-19 ha infuso forza a questo modello, che tuttavia oggi deve fare i conti con una visione ospedalocentrica della sanità e con una sempre maggiore specializzazione della medicina.

 

Se è vero che non dovremmo «mai sprecare una buona crisi», come sentenziò una volta Winston Churchill, allora dovremmo guardare alla pandemia come a un’opportunità: quella di aver acutizzato la forbice tra i nuovi bisogni di salute della popolazione e la risposta che il nostro modello assistenziale può offrire a tali bisogni.

 

Secondo il Rapporto Osservasalute 2019, in Italia gli ultra 65enni passeranno dai 14 milioni di oggi a oltre 19 milioni nel 2040. Egualmente, nel 2030 i malati cronici (diabete, ipertensione, obesità…) diventeranno 26,5 milioni e i multipatologici saranno 14,6. Sono questi ultimi a destare maggiore preoccupazione, essendo la plurimorbosità associata, oltre a prognosi peggiore, a un elevato incremento dei ricoveri. Per affrontare il problema, diverse realtà del territorio italiano stanno implementando il modello made in Usa del Chronic care model, basato sul passaggio dalla «medicina d’attesa» alla «sanità d’iniziativa», processo che per la sua complessità non sarà così immediato.

 

Legata all’aumento del numero di anziani, ma anche ai progressi diagnostico-terapeutici è l’incidenza dei tumori, che ogni anno in Italia vedono 377 mila nuove diagnosi e che richiedono assistenza continua, pena un impatto negativo sull’adeguatezza delle cure, sulla compliance del paziente e sulla sua sopravvivenza.

 

Oltre ciò si pone poi l’annosa questione del long term care, nonché dell’assistenza dopo la dimissione e della necessità di una forte integrazione tra componente sanitaria e sociale, soprattutto se i pazienti sono anziani soli, persone fragili o con disabilità.

 

A peggiorare la situazione giunge inoltre il cospicuo pensionamento di medici di medicina generale, quest’anno circa 3.900, secondo le stime della Federazione medici di medicina generale e del Sindacato dei medici dirigenti, che non saranno bilanciati da altrettante nuove assunzioni. A restare spesso prive di copertura medica sono le zone montane, dove il problema si acutizza proporzionalmente all’aumentare della distanza dalla città e dove i posti vacanti sono notoriamente meno appetibili per i professionisti della sanità.

 

Diversi studi scientifici hanno dimostrato come, laddove le cure primarie siano più forti, è garantita una più equa distribuzione della salute nella popolazione e i costi a carico del Servizio sanitario nazionale tendono a diminuire.

 

Secondo l’Ocse, l’Italia si colloca al quindicesimo posto fra i 30 Paesi più sviluppati al mondo per spesa in cure e medicinali, su cui investe il 9% del Pil. Se poi guardiamo ai posti letto prima del Covid, che ne ha aggravato la scarsità, l’Italia ne contava 3,2 ogni 1.000 abitanti, quando la media Ue era di 5 ogni 1.000 abitanti.

 

Grazie alla condizione di emergenza, tuttavia, nonostante la non sufficienza dei fondi, abbiamo potuto mettere in pratica alcuni strumenti e processi che hanno dato prova di efficacia.

 

In termini di integrazione tra ospedale e territorio, l’organizzazione delle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), costituite da medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e altri professionisti, ha creato un importante presupposto, (ri-)portando alla luce una visione proattiva della prestazione medica. A controbilanciare la prospettiva di una maggiore territorialità rimangono tuttavia i problemi relativi al reperimento di professionisti dedicati, alla loro imprescindibile formazione, nonché alla loro equa distribuzione sul territorio.

 

Le necessità di isolamento durante il lockdown hanno spinto i centri di cura a praticare la telemedicina. Secondo il Rapporto Osservasalute 2020, tra il 1° marzo e il 30 giugno 2020 sono state avviate in Italia oltre 170 iniziative digitali per facilitare la gestione dei pazienti: oltre la metà era basata sull’uso del web (38%) e del telefono (20%), per il resto l’offerta avveniva su piattaforme (29%) o app (13%). Oltre il 60% delle televisite era dedicato a pazienti non-Covid.

 

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