I POPOLARI ACCUSANO LA CRISI DEL PD. HA SENSO DIVIDERSI TRA BONACCINI E SCHLEIN O TACERE GLI ERRORI DI D’AMATO?

 

La crisi del Pd, ultimo approdo dei Popolari, ingenera la consapevolezza di un tempo nuovamente inquieto. Ciò che avviene nelle regioni, specialmente nel Lazio, getta discredito sui Dem. Per i “testimoni del popolarismo” si apre un tempo di riflessione. Bisogna reagire alla suggestione del pessimismo, senza commettere l’errore di un affidamento alla logica dell’improvvisazione.

 

Lucio D’Ubaldo

 

L’anima popolare, vivace e creativa nel passaggio di fase negli anni ‘90, appare oggi intristita. L’ombra della frustrazione si allunga, preme la sensazione di solitudine, crollano i punti di riferimento. La crisi del Pd, ultimo approdo a difesa di una originalità di visione, ingenera la consapevolezza di un tempo nuovamente inquieto. Non è infatti eccitante parteggiare per Bonaccini o Schlein, quando l’intelaiatura ideale della disputa si riduce a un enfatico contenzioso sulla rigenerazione della sinistra. Nel frattempo, a cagione di questa incertezza nel rimodulare la strategia del riformismo, le forze di governo consolidano la presa sull’elettorato: i sondaggi, anche a dispetto di un certo affanno nella gestione corrente, registrano  l’apprezzamento per l’operato di Giorgia Meloni.

 

Si dice che la parola debba tornare alla base. Eppure, a seguire le imprese della periferia, lo spettacolo del Pd non invita a pensieri rassicuranti. Va bene in Lombardia reagire al trasformismo della Moratti, mettendo anche a nudo l’incongrua esuberanza del Terzo Polo; bene anche l’apertura, comunque, all’alleanza con i riformisti, come si palesa nel Lazio; ma in entrambi i casi i candidati – Majorino e D’Amato – appaiono i banditori di una sconfitta annunciata. Quale carisma nascondono – ci si chiede – perché la dirigenza locale in essi riponga speranza? Sono in grado di spostare consensi, aprendo un varco nel blocco della destra? A dubitare non si commette errore. In realtà, i gruppi dirigenti locali mirano con il consenso della base – ci sono segnali contrari? – a preservare le condizioni della (loro) sopravvivenza.

 

Latita il progetto politico, quello autentico e sofferto, tanto da lasciare spazio a piccole astuzie. Si gioca con gli artifici. D’Amato, ad esempio, immagina di allargare il campo dando vita a ben due “liste del Presidente”, con l’unica certezza di una totale dêbacle dei candidati coinvolti, a tutto vantaggio della nomenclatura del Pd. Chi conosce la tecnica elettorale, sa come si acciuffa un seggio in extremis, grazie ai cosiddetti resti. Tutto ciò che si vede, specie nelle provincie del Lazio, è l’appiattimento sulla logica di candidature modeste, tanto per non disturbare i detentori di voti clientelari. In più si fa mostra di cadere dal pero alla notizia di una squallida orchestrazione di nomine, per giunta a fine legislatura, in nuovi enti di gestione.

 

Ora, se tale è lo scenario, sembra difficile che il popolo di centro sinistra trovi un motivo di mobilitazione. È probabile invece che aumenti l’astensionismo, motore aggiuntivo di una destra già forte di suo, nel quale finirà per trovare il suo disperato rifugio quel mondo ostile alla destra e non per questo disposto, tuttavia, a riporre fiducia nella sinistra, specie quando essa è solo…sinistra. In questo buco nero della democrazia, così come organizzata e vissuta nell’ora presente, viene risucchiata la soggettività di un elettorato ormai senza partito e persino senza coalizione. E quanti possono considerarsi, pure con umiltà, i testimoni del popolarismo, secondo la linea riformatrice che muove da Sturzo e avanza con De Gasperi, per distendersi poi nella lezione di Moro, sanno di dover reagire alla suggestione del pessimismo. Bisogna farlo con serietà, senza fretta, perché  il tempo attuale obbliga alla riflessione e al raccoglimento, non già alla proliferazione di fantasie occasionali.