Il fascino della vita consiste nei suoi chiaroscuri: quando ci sembra di aver capito tutto, di aver afferrato il bandolo della matassa, ci tocca di cominciare tutto da capo.
Possiamo forse dire: ho capito, è tutto chiaro, ecco la soluzione?
L’evidenza dei fatti e le smentite della vita mettono spesso in discussione il nostro acume ma la difficoltà ancora più grande consiste nell’ammettere quanto sia arduo condividere i reciproci punti di vista.

Siamo letteralmente immersi nei luoghi comuni: di tutte le spiegazioni avute, di quelle date e sentite nessuna è stata finora così convincente da metterci d’accordo su uno zoccolo duro, un comune denominatore di sentimento e di civiltà, nel darci quattro o cinque principi che ci consentano di vivere in armonia prima di accorgerci che l’esistenza è troppo breve e sempre piena di imprevisti e fregature.
L’aspetto più grottesco della situazione consiste nel fatto che abbiamo tutti ragione da vendere: chi parla, chi tace, chi urla, chi rivendica, chi annuisce, chi contesta, chi protesta, chi comanda, chi ubbidisce.

La regola dei distinguo, dei “ma” e dei “se” è trasversale: età, paese, ceto sociale, cultura, religione.
Il mondo è bello perché è vario, basterebbe almeno capirsi ma la pedagogia sociale è oggi scienza dei perdenti.
Siamo tutti consapevoli che molta parte delle difficoltà quotidiane dipendono spesso dalle reciproche incomprensioni: a volte si tratta di carenza di volontà altre di ottusa ostinazione, altre ancora di supponenti certezze.
Come ebbe a dire Leone Tolstoj tutti pensano a cambiare l’umanità e nessuno pensa a cambiare sé stesso.

Può darsi che la rivendicazione delle proprie convinzioni ci riempia di gratificazione e di autostima, non è certo infatti che il successo arrida ai soccombenti.
Difficile però mettere d’accordo teste e pensieri, c’è sempre chi ha qualcosa da aggiungere o da levare, chi abbandona e chi prende il sopravvento.
Ho conosciuto chi ha passato la propria vita a spiegare: per scelta, per vocazione o professione.
Che l’abbia fatto con umiltà o alterigia, con capacità o approssimazione, l’esito dell’impegno è stato sempre pesantemente condizionato dalla disponibilità a capire da parte dell’interlocutore, anche ben oltre il contenuto del messaggio o il metodo della comunicazione.

Il seme gettato nella buona terra germoglia, nella sabbia rinsecchisce.
Ci sono due categorie di comportamenti sociali oggi prevalenti che ci impediscono una comunicazione efficace: da un lato il relativismo come trionfo del lecito e del possibile, l’assenza di punti di riferimento capaci di orientare in modo stabile il timone della nostra vita.
Troviamo naturale cercare giustificazioni a tutto.
Dall’altra parte c’è una rivendicazione quasi mono direzionale del senso del diritto, di ciò che spetta per natura o per conquista.

Tutto deve essere facilitato, reso accessibile, trasversalizzato, trasparente.
Il paradosso consiste esattamente in questo: che in una società dove prevalgono le attese di soddisfacimento dei propri interessi, dove tutto ci spinge ad occupare spazi, a marcare presenze, a sottolineare ragioni riesce poi quasi impossibile spiegare – e chi mai lo potrebbe fare, con quale autorità – che i doveri non abitano soltanto nelle stanze altrui.
Questa società così scientificamente progettuale è troppo impegnata a garantirsi il presente per immaginare un futuro convincente.

A forza di impossessarci di questo mondo lo stiamo consumando.
Girando e rigirando nelle mani la matassa della vita finiamo per ingarbugliarne i fili, rimanendo noi stessi impigliati nei suoi nodi inestricabili.
John F. Kennedy diceva di essere un “idealista privo di illusioni”.
Trovo che oggi abbondino invece molti “illusionisti privi di ideali”.